Dal 9 al 31 maggio si sarebbe dovuto disputare il Giro d’Italia 2020. Tuttobiciweb lo corre comunque, giorno per giorno, con la forza della memoria. Oggi la diciassettesima tappa: Ercole Baldini ci racconta quella del 1958.
“Mi aiuta lei? E’ passato tanto tempo. Era la diciassettesima? Si partiva da Levico Terme e si arrivava a Bolzano. Centonovantotto chilometri? Avrei detto di più, ma la memoria a volte allunga, a volte accorcia, a volte addolcisce. Tappone dolomitico? Pordoi, Campolongo e Gardena, che a quei tempi, per il fondo spesso sterrato, erano salite molto più dure di adesso”.
Ercole Baldini, 87 anni, pedala nella memoria: “Restammo in nove. Forse l’ultimo a cedere fu Agostino Coletto, che era secondo, dietro di me, in classifica. Gli altri erano tutti corridori formidabili. Nel finale Eberardo Pavesi, il direttore sportivo della Legnano, mi si avvicinò sull’ammiraglia con Lupo Mascheroni, Umberto Marnati e, al volante, Bestetti. ‘La pista – mi avvertì – è in terra’. ‘E dove doveva essere – gli risposi – in cielo?’. Ma lui voleva dire in terra battuta. Dalla mia voglia di scherzare Pavesi capì che ero tranquillo, sereno, lucido. E fu volata. Si arrivava nello stadio di Bolzano, su una pista in terra rossa, da atletica, usata molto raramente per le corse di ciclismo. Però avevo corso su altre piste simili e sapevo che sarebbe stato importante entrare per primi, perché poi sarebbe stato difficile superare al largo, sul piatto, magari slittando. Entrai per primo, non venni superato da nessuno, vinsi”. Primo Baldini, secondo Louison Bobet, terzo Nino Defilippis, quarto Gastone Nencini, quinto Jozef Planckaert, sesto Hans Junkermann, settimo Jean Brankart, ottavo Jesus Lorono, nono Charly Gaul. L’Olimpo.
Fatta? “C’erano ancora tappe difficili – ammette Baldini – ma in quel Giro, direi in quell’anno, per me non c’erano problemi, avrei potuto affrontare salite e distanze con una gamba sola. Il giorno dopo si corse la Bolzano-Trento con Mendola e Campo Carlo Magno, quindi si andò a Gardone Riviera, infine si arrivò a Milano. Al Vigorelli. In tribuna c’era anche mia madre, accompagnata dal colonnello della Polizia stradale. Venni invitato a fare un giro d’onore con la squadra e da solo. Ricevetti un’altra maglia rosa. E il Bestetti, un meccanico che ci faceva da autista, mi minacciò: ‘Se non mi dai quella rosa, scordati di uscire dal velodromo’. Gliela consegnai e per 54 anni non ne seppi più nulla. Quando il figlio di Bestetti ereditò la maglia e mi chiese di metterla nel mio museo, a casa mia, proposi di darla al Museo del Ghisallo. E così è stato”.
Baldini è uno straordinario testimone del tempo: “L’anno seguente passai alla Ignis del commendatore Giovanni Borghi. Il contratto era molto più vantaggioso di quello della Legnano. E così Pavesi si affidò ai giovani. Era una brava persona, con lui si stava bene, a volte raccontava il ciclismo dei suoi tempi eroici, a volte cercava di applicare a noi le sue stesse antiche regole. C’è chi lo trattava con deferenza, rispetto, timore, e chi lo prendeva sotto braccio. A volte osavamo scherzare: ordinavamo pacchi di biscotti, che lui neanche vedeva, ma che gli toccava pagare. Glielo spiegavamo: sono biscotti Pavesi, c’è scritto anche sulla confezione, c’è scritto anche sugli scontrini”.
“L’elettrotreno di Forlì” (poi salito di categoria: il diretto, l’espresso, il rapido, oggi sarebbe un pendolino) era un eroe contro il tempo: “Davo il meglio, il massimo, tutto, nelle tappe a cronometro. Spesso sconfiggevo il tempo battendo addirittura un grande interprete come Anquetil. Ma non immaginavo quanto rivincite avrebbe preteso. Non Anquetil, ma proprio il tempo. Anche adesso che le forze sono impari. Fatico a camminare, perfino a leggere. Ma tengo duro. E’ il ciclismo che me lo ha insegnato”.
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