Dal 9 al 31 maggio si sarebbe dovuto disputare il Giro d’Italia 2020. Tuttobiciweb lo corre comunque, giorno per giorno, con la forza della memoria. Oggi l’ottava tappa: Paolo Fornaciari ci racconta quella del 1995.
“La partenza ad Acquappesa Marina, l’arrivo a Monte Sirino. La partenza la ricordo a memoria, l’arrivo l’ho visto soltanto in cartolina. Perché mai ci arrivai. Duecentonove chilometri, e se ce n’era uno diritto, quello era il primo, poi il percorso cominciava ad andare su e giù, sopra e sotto, fuori e dentro, a destra e a sinistra, non stava mai fermo, si agitava come il mare durante il suo bollettino. In programma quattro salite da gran premi della montagna: Monte Scalone, Acquaformosa, Valico Campo Tenese e Monte Sirino. Ma ce n’erano altre ingiustamente private del titolo altimetrico, come il Pian di Menta, che di piano ha solo il nome, e il Valico dei Cerri. Purtroppo io avevo come un coltello nel ginocchio, non riuscivo a pedalare, se non sanguinavo era solo per un miracolo, non mi vergogno di confessare che scoppiai a piangere. Lo consideravo un fallimento. E già sul Monte Scalone scesi dalla bici e salii, a capo chino, su una macchina. Fu una vera fortuna che si trattava di una macchina della nostra squadra”.
Paolo Fornaciari aveva 24 anni ed era al quarto anno da professionista e alla Mercatone Uno. “Avevo cominciato la carriera alla grande. Secondo in una tappa del Giro di Sicilia dietro a Michele Bartoli: questo è un cacciatore di tappe, dissero. Poi fui terzo nella generale: questo è un uomo da corse a tappe, dissero. A fine stagione fui secondo alla Milano-Torino: questo è un corridore da classiche, dissero. Finché Antonio Salutini, il mio diesse, mi rivelò la verità: occhio, quelli che arrivano secondi e terzi dopo due o tre anni smettono di correre, invece tu, siccome hai un motore eccezionale ma per vincere, non vincerai mai, è meglio che aiuti a vincere. A dirla tutta, ne avevo vinta una, ma forse così lontano, dall’altra parte del pianeta, in Tasmania, che forse non contava. Così mi dedicai a fare il gregario, il gregarione, data la mia altezza più adatta al Madison Square Garden inteso come basket che non al Gavia inteso come calvario o al Mortirolo inteso come martirio”.
Fu una svolta: “Da gregario ho conquistato tre Giri d’Italia, con Gotti – il più bello: mi riferisco al Giro, non a Gotti – nel 1997, Simoni nel 2003 e Cunego nel 2004, innumerevoli classiche italiane e del nord. Da gregario ho imparato il mestiere di vivere e l’arte di sopravvivere, e ho imparato a riconoscere l’autentico gregario, e perdonatemi l’espressione casereccia, non quello che lecca il culo, ma quello che si fa il culo. Da gregario ho avuto la fortuna, anzi, il privilegio di ricevere regole, istruzioni, consigli e fiducia da grandi direttori sportivi. Proprio quella sera dopo Monte Sirino, abbacchiatissimo, mentre i compagni cercavano di tirarmi su di morale, Luciano Pezzi mi prese in disparte, mi portò sul fondo del pullman, mi mise una mano sulla spalla, e mi disse di non preoccuparmi, che sapeva quello che valevo e quello che ero. ‘Torna a casa, vai sul molo, poi tuffati, nuota, pesca, l’importante è che guarisci, recuperi e riprendi. Io ti aspetterò’. Aveva quella faccia un po’ così, quell’espressione un po’ così, quegli occhi un po’ così, anche quei denti e quell’accento un po’ così che insomma era proprio il grande Luciano Pezzi. Ed è quello che feci a Viareggio: andai a pescare le seppie. Risultato: dei miei 11 Giri, quello del 1995 fu l’unico in cui abbandonai”.
Adesso “il Forna” è diventato un campione di gelati: il suo “Ultimo kilometro”, a Buggiano, è un tempio di coni e coppette. “Qui ho capito tutto, il senso della crema e del cioccolato, il senso della vita e dello sport e soprattutto il senso del ciclismo: il campione è un gelato al pistacchio, il gregario è alla frutta”.
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