Dal 9 al 31 maggio si sarebbe dovuto disputare il Giro d’Italia 2020. Tuttobiciweb lo corre comunque, giorno per giorno, con la forza della memoria. Oggi la dodicesima tappa: Giampaolo Cheula ci racconta quella del 2003.
“Era la montagna misteriosa. Nessuno della nostra squadra l’aveva mai vista, esplorata, provata. Si sapeva che era dura, anzi, durissima. Si diceva di pendenze al limite del ribaltamento. Si narrava perfino di spiriti maligni. E poi quel nome, così avverso, così minaccioso, così ostile: Zoncolan”.
La dodicesima tappa del Giro d’Italia 2003 partiva da San Donà di Piave e dopo 185 chilometri con due gran premi della montagna, Fuessa e Sella Valcalda, scopriva lo Zoncolan. Era il 22 maggio. Un giovedì. “E il giorno dopo, se fossi sopravvissuto, avrei compiuto 24 anni”.
Giampaolo Cheula correva nella Vini Caldirola: “In supporto a Stefano Garzelli. Già tre giorni in maglia rosa. Sarebbe arrivato secondo dietro a Simoni. L’ordine era stargli vicino fino ai piedi dell’ultima salita, poi ognuno per sé e Dio con tutti. Si affrontava la salita dal versante di Sutrio. Spiegavano che era più dolce rispetto a quello di Ovaro. In più, da Sutrio c’era l’asfalto, da Ovaro lo sterrato. Ci fecero montare rapporti mai usati prima: il 34 o il 36 davanti, il 28 dietro. La tappa fu movimentata, scrosci di pioggia, un gruppetto in fuga, noi in sostegno a Stefano. All’inizio dello Zoncolan completai il mio servizio di giornata: ritirai i caschi – a quel tempo, in tappe di una certa distanza e prima dell’erta finale, si poteva pedalare senza – di Garzelli, Mazzoleni, forse Zampieri, il mio, li consegnai all’ammiraglia, poi mi staccai. I primi sette chilometri non erano così terribili: si saliva pedalando. Poi c’era una specie di pianoro, probabilmente la base di seggiovie e skilift, e da lì la strada si rimpiccioliva a mulattiera, una lingua un po’ d’asfalto e un po’ di cemento, con rampe sempre più inquietanti, allarmanti, terrorizzanti. Ce n’era una valutata addirittura al 27 per cento. Per nostra fortuna c’era la folla, una folla entusiasta, sportiva, e anche molto generosa. Rimediai parecchie spinte. Mi fecero comodo”. Sessantaseiesimo, sotto lo striscione, dopo Andrea Tonti e prima di Bernhard Eisel, a 16’30” da Simoni.
Quel Giro è indimenticabile anche perché transitò da Crodo, che ha sempre fabbricato più bibite che corridori: “Si passò proprio davanti a casa mia. La prima e unica volta in un secolo di Corsa Rosa con il primo e unico corridore locale. Cartelli, striscioni, lenzuola con il mio nome, neanche fossi un eroe della patria”.
Cheula era passato professionista a 20 anni: “Nel progetto giovani della Mapei. Cancellara, Pozzato, Rogers, Petrov, Paolini, Wegelius, Bodrogi, Eisel, Clerc, Davis... Capii subito la differenza fra campioni e gregari. Infatti: gregario. Per 12 anni. Si vede che la facevo bene. In montagna me la cavicchiavo. Ma certe salite me le sogno ancora di notte. La più dura lo Zoncolan, dal versante di Ovaro. L’avrei scoperto solo otto anni più tardi, nel 2011. Si fece una ricognizione il giorno di Pasqua, con Menchov e Sastre, prima il Crostis, altra cattiveria altimetrica, poi lo Zoncolan. Un inferno verticale. Il Mortirolo sono sempre riuscito a schivarlo, anche in ammiraglia. Invece nel 2010 mi toccò la Bola del Mundo, alla Vuelta di Spagna, un luogo lunare, con una striscia di cemento che saliva nel nulla, fra pendenze assurde e raffiche di vento. Solo una volta misi i piedi a terra: accadde sul muro di Montelupone, e rimettersi in sella, in azione, sui pedali, fu un’acrobazia”. Non che le discese provochino meno incubi delle salite. “Ricordo la Croix de Fer, in ammiraglia dietro a Egan Bernal, complicatissima: ogni curva una mitragliata di brividi, ogni controcurva la vertigine del precipizio”.
Lo Zoncolan è la geografia diventata storia: “Visioni mistiche non ne ebbi, conversioni religiose neppure. Solo una volta giurai a me stesso ‘mai più’. Fu al Tour de France, sul Galibier. Ma non ho mantenuto la parola. Lo scorso anno non ho resistito alla tentazione e ci ho portato mio figlio. In macchina, sia chiaro”.
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