Oggi nella corsa femminile su strada avremo gli occhi puntati sulle campionesse in lizza per giocarsi una medaglia, ma tra loro ci sono donne che anche se arrivassero ultime hanno già vinto. Ragazze che solo per essere presenti ai Giochi Olimpici hanno fatto l'impossibile e rischiano tantissimo. Le prime sono due sorelle afghane di cui abbiamo già scritto perchè dal primo settembre 2021 vivono in Italia dopo la fuga precipitosa dall’Afghanistan riconquistato dai talebani. Fariba e Yulduz Hashimi in questi giorni non solo sono alla loro prima Olimpiade ma addirittura sono le portabandiera di un Paese che opprime e discrimina le donne, impedendo loro di studiare, praticare sport e in generale vivere liberamente, e per questo rischiano davvero grosso, come ci spiega la loro “mamma” italiana Alessandra Cappellotto.
«Nel vederle al via sono più emozionata di quando partecipai io in prima persona ai Giochi di Atlanta 1996 e Sidney 2000. Sono strafelice perché stanno facendo qualcosa di grande e, a dirla tutta, anche un po' preoccupata, ma la sicurezza a Parigi è altissima» racconta la campionessa del mondo di San Sebastian 1997, oggi rappresentante delle cicliste come direttrice del CPA Women.
Qualcuno ha chiesto loro perché vogliono rappresentare il paese da cui sono state costrette a scappare, la risposta è stata: “Vogliamo farlo perchè le cose devono cambiare”. «Vederle alla cerimonia di apertura sventolare la loro bandiera ha trasmesso un grande messaggio, più forte di quelli che avrebbe potuto lanciare un capo di stato. Fariba e Yulduz sono coscienti del rischio che corrono, hanno coraggio a mettersi contro il mondo talebano. La loro famiglia, che abita ancora in Afghanistan, è stata costretta a cambiare quattro volte casa nell'ultimo anno e il loro fratello più piccolo è stato ferito con un coltello alla testa. Gli è stato detto: “Questo è per le tue sorelle alle Olimpiadi”» continua Alessandra, fondatrice delll'associazione Road to Equality, con la quale sostiene cicliste che provengono da paesi in difficoltà. Tra loro, tra le partenti della prova in linea odierna, anche la nigeriana Ese Lovina Ukpeseraye.
L'esempio di queste due giovani coraggiose è stato seguito da Kimia Yousofi, 28enne rifugiata politica in Australia da quando i talebani hanno preso il potere. È arrivata ultima ai preliminari dei 100 metri. Quando ha finito la sua gara, si è tolta il pettorale ignorando la Rule 50 (che vieta manifestazioni e propaganda politica, religiosa e razziale durante i Giochi) e ha mostrato al mondo la scritta «Istruzione, sport, i nostri diritti». Quindi ha aggiunto: «Ho un messaggio per le ragazze afghane. Non mollate. Non lasciate che siano altri a decidere per voi. Cercate le vostre opportunità, e poi usatele».
Per il suo impegno in favore dei diritti dei più deboli e della promozione del ciclismo femminile anche sulle strade più impervie, nel 2022 Alessandra Cappellotto ha ricevuto il premio "Sport e diritti umani" di Amnesty International e Sport4Society. «È stato un riconoscimento inaspettato che per me oggi vale più di un titolo mondiale o di vincere alla lotteria, fare qualcosa per gli altri vale più di una medaglia d'oro» continua Cappellotto, che ci tiene a ribadire quanto l'Olimpiade sia fondamentale per i diritti umani. «La presenza di certi paesi nel mappamondo mondiale fa capire alle nuove generazioni che sia ragazzi che ragazze possono ugualmente inseguire i propri sogni. Nel Villaggio Olimpico ci sono tutte le bandiere a indicare che siamo un paese unico senza distinzioni di genere, provenienza, religione, colore della pelle... ».
L'avventura di Road to Equality era iniziata in Ruanda, le ultime richieste che ha ricevuto l'associazione arrivano dall'Iran. «Dopo il genocidio le cicliste ruandesi che abbiamo supportato sono diventate l'orgoglio del loro Paese, oggi sono talmente delle superstar che il mondo intero l'anno prossimo andrà da loro per l'assegnazione della maglia iridata. Lo sport ha un linguaggio universale e una potenza incredibile, i sogni di una bambina sono uguali in tutto il mondo» ricorda Alessandra, oggi a Parigi con i nipoti (i figli della sorella Valeria, olimpica nel 1992 e 2000, mancata prematuramente nel 2015, ndr) e le altre ragazze afghane che vivono al sicuro in Veneto.
«Ho 56 anni e ho iniziato a pedalare a 7, quando ho cominciato a gareggiare io la situazione non era così diversa da quella che si trova in Africa oggi. Avevo un papà avveniristico, che a me e mia sorella diceva che potevamo fare tutto quello che volevamo, quanto nostro fratello, ma ricordo che i bambini mi urlavano “cosa ci fai in bici, femmina?” – aggiunge la ex ciclista oggi riferimento per le colleghe di tutto il mondo. - Non è difficile aiutare le giovani donne a casa loro, nel mio piccolo io cerco di farlo, non da sola. Ovunque si trovino le ragazze ormai, anche grazie ai social, sanno che meritano di poter praticare sport come i pari etá maschi. Va educato chi sta loro attorno, nel paese dove vivono. Basta un villaggio che dia l'esempio...».
O due campionesse coraggiose, come quelle che applaudiamo oggi a Parigi in maglia Afghanistan.
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