Vincere non è mai facile, riuscirci in grande stile è davvero raro, farlo sembrare naturale è per pochi eletti. In una manciata di faticosissime ore Alessandro Covi ha conquistato la Cima Coppi del Giro d’Italia 105, si è imposto nella tappa regina e ha riscattato la UAE Emirates che aveva dovuto rinunciare al proprio leader a tre giorni dal traguardo di Verona. Il 23enne varesino, dopo aver sfiorato il successo in rosa due volte l’anno scorso, in questa edizione è riuscito a centrare il bersaglio grosso su una salita mitica con cui aveva un conto in sospeso.
Il successo non gli ha dato alla testa, tutt’altro. Quando lo raggiungiamo al suo rientro a Taino, è il ragazzo di sempre dai modi gentili e la battuta brillante, comprensibilmente stanco dopo tre settimane “a tutta” su e giù per il Bel Paese, ma già pronto per inseguire nuovi obiettivi.
Come è stata l’accoglienza?
«Calorosa. In Municipio è stato organizzato un incontro da Il Puma di Taino fan club, in piazza ho salutato i tifosi, è stata affissa una mia gigantografia a braccia alzate in cima al Passo Fedaia con scritto “Il Puma di Taino. Scattante come un felino sulla Cima Coppi, graffiante come un Puma sulla Marmolada. Grazie Ale!”. In realtà sono io a dover ringraziare chi mi sostiene. Mi sto godendo il momento, convinto che questo sia tutt’altro che un punto di arrivo. Dopo ogni obiettivo raggiunto se ne presentano di nuovi e io sto già pensando a quelli. Giovedì sarò in gara al Giro dell’Appennino. Sono stanco, come tutti i reduci dalla corsa rosa, ma con la squadra mi ero preso l’impegno e io sono uno che li rispetta».
Perché il Puma di Taino?
«Quando ero Under 23, i compagni avevano cominciato a darmi questo soprannome buffo. Un gioco, poi è piaciuto ed è diventato ufficiale, anche come logo del fan club. Il puma ce l’ho anche tatuato, è un animale non comune».
Almeno un po’ di baldoria l’hai fatta?
«Non molta per la verità perché domenica ero morto. La sera prima avevo dormito due ore appena per via dell’emozione e tutto ciò che segue una vittoria così importante, quindi ho riposato più che potevo e lunedì mattina senza sveglia avrei dormito all’infinito. Tornato a casa è stato bello abbracciare parenti e amici, così come condividere un po’ dei cimeli portati a casa dal Giro con i tifosi. La sede del mio fan club a Taino è ancora un po’ vuota, per ora c’erano i trofei delle vittorie in Spagna di inizio anno, le prime tra i professionisti che ho colto alla Vuelta Murcia e in una tappa della Vuelta a Andalucia, ma dopo la ventesima frazione della corsa rosa aumenterà il valore di ciò che è esposto. L’idea è piano piano di riempire ogni angolo».
Cosa ti sei concesso?
«Non avevo desideri particolari. Anche quando gareggio non mi do troppi limiti. Io mi diverto alle corse, mi godo la vita andando in bici, non mi sottopongo a sacrifici estremi, non fanno per me. Non c’era un piatto che sognavo durante il Giro (il suo preferito è il kebab, ndr) né nulla che mi mancasse in modo particolare. Mi ritengo fortunato, da quando sono passato professionista sto vivendo il mio sogno ogni giorno».
Ti sei reso conto di aver realizzato un gran numero?
«Ci ho messo un po’ a metabolizzarlo. La soddisfazione ho cominciato ad assaporarla ai 200 metri. Quando ho visto che Domen Novak aveva 100 metri di svantaggio ho pensato “Beh, manca poco. Come fa a venirmi a prendere?” Gli ultimi secondi me li sono goduti. Ho attaccato a circa 55 chilometri dalla conclusione sul Pordoi (Cima Coppi). Dall’ammiraglia mi dicevano di andare a tutta, ma io ero già a tutta… Al limite dei crampi. Ma sapevo come gestirmi e sono riuscito a resistere al tentativo di rimonta del portacolori della Bahrain Victorious. Se anche mi avesse ripreso non l’avrei lasciato vincere. In fuga non aveva tirato un metro avendo alle spalle il compagno-capitano Mikel Landa. Non poteva vincere».
Te l’eri immaginata così questa vittoria?
«L’anno scorso al Giro fui secondo sullo sterrato di Montalcino, 3° sullo Zoncolan. Ci ero arrivato vicino, ma non abbastanza. La volevo da allora. L’anno prossimo cercherò di vincere ancora la tappa più bella. Amo dare spettacolo. Al mattino, scherzando, avevo detto “vinco la Cima Coppi”, invece mi sono preso tutto. Ho corso come volevo, avevo avvisato i tecnici: “Farò quello che mi sento”. Sportivamente parlando finora è stato il mio giorno più bello».
Vincere il tappone per eccellenza a fine Giro non è da tutti. Per il futuro cosa ti lascia?
«La conferma che il lavoro paga. Sono stato due mesi fuori casa, allenandomi in altura a Sierra Nevada per migliorare ed essere utile ad Almeida, il nostro leader. Mi sono dedicato a lavorare per lui. Purtroppo è stato costretto a fermarsi a causa del Covid, nella sfortuna io ho avuto il via libera. Mi sono trovato in una fuga che è andata via di forza e, non avendo nessuno da aspettare, ho potuto giocarmi le mie possibilità. Le immagini della vittoria le riguarderò spesso ma spero sia solo la prima di tante. Dove posso arrivare? Non lo so, sono giovane ma di una cosa sono certo: dalle sconfitte si impara e io ho imparato da quelle dello scorso anno».
Con la Marmolada avevi un conto in sospeso.
«Nel Giro Under 23 del 2019 avevo perso il podio finale proprio sul passo Fedaia, che è una salita micidiale. In maglia Colpack avevo lasciato via libera ai colombiani. Finii quarto alle spalle di Andrès Camilo Ardila, Einer Rubio e Juan Diego Alba. Stavolta invece sono riuscito a realizzare ciò che desideravo e mi sono riscattato con gli interessi. Sono sicuro che, oltre alla UAE Emirates, abbiano festeggiato le formazioni in cui sono cresciuto, dalla Cadrezzate da esordiente fino a quella con cui mi sono messo in luce al Giro Giovani 2018 e 2019 (che concluse in entrambe le occasioni come miglior italiano in classifica generale, ndr), per poi meritarmi il grande salto nel 2020».
Come avevi preso il ritiro di Almeida?
«Eravamo venuti per vincere il Giro con lui quindi è stato un colpo impressionante. Mi è dispiaciuto molto, abbiamo un ottimo rapporto (Joao gli ha dedicato un tweet di incoraggiamento mentre Alessandro era all’attacco, in cui si diceva convinto che il compagno avrebbe vinto, ndr). Siamo giovani, abbiamo altri Giri davanti».
Questo Giro ha messo in luce tanti giovani di casa nostra.
«Oltre a me hanno vinto Dainese, Oldani, Ciccone e Sobrero, mi sembra un buon bottino. È vero che forse in questa fase siamo un po’ carenti di corridori che possono lottare per la generale e sono quelli che appassionano di più il pubblico, ma è solo questione di tempo. L’anno scorso un azzurro ha vinto la Roubaix, trovo assurdo dire che siamo finiti».
È stato l’ultimo ballo di Vincenzo Nibali. Per te cosa rappresenta lo Squalo?
«Abbiamo un buon rapporto (e anche gli stessi procuratori, Alex e Johnny Carera, ndr), dall’anno scorso mi lega a lui una bella amicizia, che si aggiunge alla stima che già nutrivo nei suoi confronti. Mi fa piacere aver ricevuto i suoi complimenti e, questa è una battuta ovviamente, che non sia salito sul podio finale se no avrei dovuto pagare una cena a Davide Formolo. Avevamo scommesso e io, con tutto il bene che gli voglio, essendo molto realistico pensavo fosse impossibile raggiungere la top 3 a 37 anni, anche per un campione del suo calibro. In realtà ci è arrivato vicino, mi ha stupito, dimostrando una volta di più di essere un grande».
Siamo tutti alla disperata ricerca di un suo successore. Ti candidi?
«No (risponde secco, ndr). Quello che fanno i pretendenti alla classifica generale nei grandi giri è troppo duro, impressionante. Io non sarei in grado di essere ogni giorno “sul pezzo” e non sono uno scalatore, non ho le caratteristiche adatte. So che quando vinci una tappa in salita pensano tutti che sei uno che va forte quando la strada sale, ma non è così e le scorse settimane me lo hanno confermato. Quando dovevo aiutare Joao mi staccavo già da 30-40 corridori. Sono consapevole dei miei limiti, in salita faccio fatica, per questo devo anticipare. Io sono un passista veloce, vado forte sugli strappi secchi, posso dire la mia in arrivi di gruppo ristretto. Forse sono un uomo da classiche, da Ardenne, anche se non le ho ancora disputate. Spero di poter dire la mia un giorno in corse come Amstel Gold Race, Freccia Vallone e Liegi-Bastogne-Liegi».
La bici è una questione di famiglia in casa Covi.
«Mamma Marialisa Giucolsi è stata professionista così come suo fratello Roberto, mentre papà Andrea (che durante il lockdown gli ha trasmesso la passione per la chitarra, ndr) ha corso fino a dilettante. Lei ora si occupa della casa, lui lavora come ingegnere alla Nielsen. Ho una sorella più grande di me di un anno, Marina, che studia in Polonia dove papà lavora. Da piccolo i miei genitori mi hanno fatto provare tutti gli sport possibili. Mi sono cimentato con il tennis, l’atletica, lo sci e il nuoto, finchè un giorno mi hanno portato a vedere una gara di ragazzini vicino casa e io ho detto: “Questo è il mio sport. Perché loro sono in bici e io no?”. Così mi hanno portato alla Bottega del Romeo, conosciuto ciclista di Ispra (Va), amico di famiglia, che mi ha fornito le due ruote per tutte le categorie dei giovanissimi. Alla prima gara, avevo 6 anni e indossavo la maglia della Orinese, finii secondo dietro a un ragazzino che da lì in poi mi avrebbe battuto tante altre domeniche. Era decisamente più sviluppato di me, io ero così mingherlino... Ero l’eterno battuto, ma poco mi importava perché finita la gara c’era il panino con la salamella che mi aspettava».
Per il prosieguo della stagione cosa ti auguri?
«Dopo l'Italiano staccherò un po’, per poi riprendere a San Sebastian e puntare alle classiche di fine stagione in Italia. Spero di ripetere quanto di buono fatto vedere a fine 2021. La Tre Valli Varesine, essendo la corsa di casa, è quella per cui ho un pizzico di motivazione in più, ma voglio giocarmi ogni occasione che mi si presenterà. L’ho già detto e lo ripeto: sto già vivendo il sogno che avevo fin da bambino. Sono in gruppo e mi confronto con i migliori ciclisti al mondo, per me è già una favola. Da quando sono passato professionista più che una lista dei desideri ho una serie di obiettivi da raggiungere».