Me l’aveva raccontata, ma quella mattina, domenica 2 giugno, a Verona, al raduno di partenza dell’ultima tappa, presi solo questo appunto: Bruno Vicino, Trento-Barzio, Giro d’Italia 1979. Così l’altro giorno gli ho telefonato. E me l’ha raccontata ancora (e questa è la quattordicesima puntata).
“Giro d’Italia 1979, sabato 5 giugno. Diciottesima (diciannovesima contando il cronoprologo) e penultima tappa, la Trento-Barzio, ufficialmente 245 chilometri, anche se a me sembra di ricordarne una quarantina in più, in programma anche tre salite, Tonale, Aprica e Tartavalle, in salita anche l’arrivo. Correvo per la Gbc-Galli-Castelli, squadra belga, io l’unico italiano. Eravamo rimasti in quattro.
Alla partenza Francesco Moser, con aria di complicità, mi rivelò: ‘Visto che sei da solo, davanti al mio negozio c’è un traguardo a premio, 500 mila lire’. Pronti-via, scattai, il gruppo si aprì, nessuno mi inseguì. Due o tre chilometri a tutta, ma quando passai davanti al negozio delle biciclette Moser, non vidi né lo striscione né i giudici. Pensai che forse Francesco si riferiva non al nuovo negozio alle porte di Trento, ma a quello vecchio, che si trovava a San Michele Adige a una quindicina di chilometri. E siccome nessuno mi veniva dietro, tenni duro. Ma quando passai davanti al vecchio negozio delle biciclette Moser, non vidi né lo striscione né i giudici. E a questo punto non sapevo più che cosa pensare. Però avevo già un minuto e mezzo di vantaggio sul gruppo, sulla sinistra si imboccava la Val di Sole, tanto valeva continuare. ‘Ormai che ci sono’, mi dissi, ‘vado avanti con il mio passo tranquillo, mi faccio vedere in tv, e pazienza se sul Tonale mi prenderanno’.
Il bello è che invece di perdere, guadagnavo. Sul Tonale avevo sei minuti di vantaggio, all’Aprica una quindicina, raggiunsi un massimo di una ventina. C’era di che sognare, c’era di che sperare. Campione italiano dilettanti, al terzo anno da professionista, nessuna vittoria ma – come si dice – c’è sempre una prima volta. Avevo ancora 18 minuti di vantaggio quando il motociclista, quello con la lavagna su cui erano scritti i distacchi (altro che radioline), mi si affiancò: ‘Ha detto Panizza di rientrare’. Quell’anno Miro Panizza era compagno di squadra di Moser alla Sanson. Con tutta la fatica che avevo fatto, e che stavo facendo, mi arrabbiai. E al motociclista risposi: ‘Digli di venirmi a prendere’.
Ma avevo anche chi mi incoraggiava. Era Antonio Maspes, il sette volte campione del mondo di velocità e c.t. della pista, che guidava la macchina con Belloni, non Tano Belloni l’eterno secondo, ma Piero Belloni, l’industriale della Termozeta, quello che aveva inventato la maglia ciclamino della classifica a punti. Mi mostravano un Rolex d’oro: ‘Se vinci, è tuo’. Poi, però, accadde un guaio: io beccai una tempesta di grandine, il gruppo - che seguiva a chilometri di distanza - solo acqua e vento. Risultato: io mi bloccai e il gruppo si scatenò, si frazionò, ai piedi dell’ultima salita si formarono quattro o cinque gruppettini, davanti tutti gli uomini di classifica, Saronni in maglia rosa e Moser che sperava ancora. Ma ero abbastanza morto. Inevitabilmente venni raggiunto, assorbito, inghiottito e... digerito. Per orgoglio cercai di resistere, pedalavo piano ma pedalavano, arrivai ancora con i primi. Vinse Amilcare Sgalbazzi, io fui diciottesimo. Però quell’avventura, nata per scherzo, rimane forse la più lunga fuga solitaria nel Giro d’Italia del dopoguerra. Che è pur sempre una grande soddisfazione.
Con Moser non ne parlai più. Il giorno dopo si correva l’ultima tappa, 44 chilometri a cronometro, da Cesano Maderno a Milano. Io, fra gli ultimi in classifica, partii fra i primi. Moser, secondo in classifica, partì penultimo. E non ci vedemmo. Il Giro finì. E quando ci incontrammo, non mi ricordo più quando, a un’altra corsa, lui fece finta di niente, e anch’io”.
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