Magici i cassetti, che contengono foglietti. Pochi appunti, per infiniti spunti. Il protagonista di oggi è Marino Vigna, un signore del ciclismo da corridore, direttore sportivo, commissario tecnico, fornitore, ambasciatore...
“1967, primo anno da dilettante. Mi dividevo, come sempre, fra strada e pista. Venni convocato a rappresentare l’Italia per un paio di riunioni in Bulgaria, a Sofia. Io in coppia con Pietro Musone, poi due inglesi, Tom Simpson e Norman Sheil, campione del mondo dell’inseguimento nel 1955 (e ancora nel 1958), due olandesi, due francesi, due tedeschi, uno era Sigi Renz, due danesi, un francese e una sfilza di bulgari. In viaggio eravamo da soli. L’andata in treno, sul TEE, il Trans Europ Express, vagone-letto e ristorante, 36 ore per arrivare a Sofia, con il cambio a Belgrado. Non fu facile, perché a Belgrado scoprimmo i caratteri cirillici, per noi una novità assoluta, infatti completamente ignoti e indecifrabili. Alla stazione di Sofia, per farci riconoscere dall’interprete, ci vestimmo da corridori. In teoria avevamo le bici al seguito, in pratica le bici arrivarono due giorni dopo”.
“La prima sera era in programma l’inseguimento. Senza le nostre bici, corremmo con bici di fortuna, in prestito, fuori misura. Risultato: restammo fuori dai primi otto, ma bisogna anche considerare che c’erano corridori fortissimi. Ci rifacemmo la sera dopo, nell’americana, con le nostre bici. Previsti 100 chilometri, pari a 300 giri di una pista di 333 metri. Mi sembra che funzionasse così: i primi 40 giri si correvano a giri, i secondi 40 a punti, poi di nuovo a giri. O forse: i primi 40 chilometri a giri, i secondi 40 a punti, gli ultimi 20 ancora a giri. Insomma: rifilammo una spolverata a tutti, prendendo due giri di vantaggio, resistendo fino alla fine e diventando i beniamini del pubblico”.
“Così ci chiesero di rimanere lì. Ma non potevamo: eravamo militari. Allora andammo al consolato italiano e ottenemmo di allungarci il permesso di altri 10 giorni. Stavolta in programma altre due riunioni, a Varna e a Burgas. Da qualche parte ho ancora la fotografia della statua di Stalin, che poi con la fine del comunismo sarebbe stata abbattuta. In una di quelle riunioni Musone cadde e si fratturò il gomito. Guadagnammo un sacco di soldi, l’equivalente di un anno per un operaio, un operaio bulgaro. Ma lasciammo tutto là: non c’era niente da comperare, se non essenza di rose e alcuni lavoretti intarsiati in legno. E ricordo ancora un ricevimento nell’ambasciata inglese, con buffet di caviale Tornai a casa da solo, ma stavolta in aereo”.
“Musone aveva insegnato a Simpson le parolacce in italiano. Quando lo rividi al Vigorelli, Tom mi salutò con un ‘vaffanculo’. Ma per lui equivaleva a un ‘ciao’”.
“La lingua era un problema anche al ristorante. Piano piano imparammo. ‘Agneska supa’ era la zuppa d’agnello. E ‘palacinka’ una frittata dolce, una ‘crepe’. E poi fragole a quintali”.
“Quella fu la mia prima volta su un DC2, un bimotore che spingeva alle preghiere, e in un campo nudisti. Entrando, vedevamo solo uomini. Ma se ci sono gli uomini, fu il nostro ragionamento, ci saranno anche le donne. E infatti c’erano!”.
“1959, altra tournée in Bulgaria, il c.t. Guido Costa convocò Bianchetto e Beghetto, Gaiardoni, Gasparella, Damiano, Simonigh e Vallotto, ma gli organizzatori locali pretendono anche me. Stavolta il viaggio fu in aereo. L’andata da Roma a Sofia, il ritorno da Sofia a Milano, sempre fermandoci a Vienna. L’andata tutti insieme il ritorno senza Costa e Gasparella, che erano andati a Aarhus, in Danimarca, dove Gasparella avrebbe vinto il gran premio. Ma Costa ci lasciò senza soldi. E con il solito problema della lingua. In un self service individuai un piatto promettente sulla tavola dei vicini, lo presi, lo portai alla cassa, e a gesti spiegai che ne volevo uno così. A Milano c’era la nebbia e fummo dirottati su Venezia. A Venezia ci assicuravano il rientro in treno, in prima classe. Ma quando vidi un pullman di inglesi che arrivava dalla Malpensa, chiesi all’autista se ci avrebbe potuto caricare. Tutti? Eh sì. Accettò. Fu fantastico: lasciò Beghetto e Bianchetto a Padova, Gaiardoni a Verona, Simonigh verso l’autostrada per Torino, me davanti a casa... Noi lo ripagammo, a forza di cori, con canzoni e stornelli”.
“1961, Belgio. Il giorno prima del Giro delle Fiandre era in programma una riunione. Venni convocato con Pettenella, Macchi e Marzani. Si correva in un circuito rotondo ricavato nel Bois de la Cambre, un parco pubblico, si arrivò in volata, sgomitando, la finii sul marciapiede, forse settimo”.
“1967, Vuelta, tappa di Benidorm. Discesa curva a destra, passaggio a livello, curva a sinistra. Eravamo in 150, io e Simpson gli unici a rimanere in piedi. Ci venne da ridere. Non sapevo che cosa mi sarebbe aspettato. Perché i miei compagni, da Panizza a Dancelli, si erano fatti male. Mi fermai ad aspettarli, poi tirai tutto il giorno”.
“Nella Vittadello, in quella Vuelta, c’era anche Severino Andreoli. Prima di ogni salita, forse perché era preceduta da una curva o forsde perché la strada si restringeva, c’era sempre qualcuno che urlava peligro’, così lui pensava che ‘peligro’ significasse salita, non pericolo. Ma considerate le sue grandi capacità di passista e non altrettanto di scalatore, Andreoli non aveva torto”.
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