Dal 9 al 31 maggio si sarebbe dovuto disputare il Giro d’Italia 2020. Tuttobiciweb lo corre comunque, giorno per giorno, con la forza della memoria. Oggi la quattordicesima tappa: Pino Petito ci racconta quella del 1988.
“Fu bufera di neve, fu tempesta di vento. Fu inferno di ghiaccio, fu apocalisse di fango. Fu la fine del mondo. Volevo morire, mi credete?, e pregai di morire. Invece, più che l’istinto di sopravvivenza, fu lo spirito del ciclismo a farmi continuare, proseguire, arrivare. Io e la bicicletta: una cosa sola”.
Pino Petito aveva 28 anni, disputava l’ottava delle sue 16 stagioni di professionista correndo per la Gis Gelati, e affrontò la quattordicesima tappa del Giro d’Italia del 1988 senza prevedere, senza presagire, senza immaginare quello che sarebbe successo. “Da Chiesa Valmalenco a Bormio, 120 chilometri, prima l’Aprica, poi il Gavia. Pioggia alla partenza. Mi era successo di molto peggio: neve alla partenza al Fiandre, alla Roubaix e alla Vuelta. Solo che qui, stavolta, c’era una salita che ci avrebbe portato a metà strada fra Terra e Cielo”.
Era domenica 5 giugno 1988, ma una di quelle giornate fra primavera ed estate, scippate da un cuneo polare, da un microclima artico, o forse da un romanzo ottocentesco. “L’Aprica cominciò a fare danni, il gruppo si spezzò, l’acqua in salita e il freddo in discesa ci entrarono nelle ossa. La salita da Edolo a Ponte di Legno ci restituì speranza, le nuvole sembravano alzarsi e aprirsi. Rimasi nella pancia del gruppo: avevo bisogno di calore, termico e umano. Ci si faceva coraggio, in silenzio. A Ponte di Legno attaccammo la salita, a Sant’Apollonia affrontammo i tornanti, appena usciti dal bosco entrammo nella tragedia. La strada era neve e fango, si seguivano i binari tracciati dalle ruote delle moto, il resto era invisibile, o nero nel buio della galleria a tre chilometri dal passo, poi ancora neve e fango, ancora vento e gelo, ancora una tormenta di cristalli. Ognuno procedeva con il suo passo, un passo da condannato a morte, avevo il 41x23, pedalavo di forza, di inerzia, ciecamente”.
Ma il peggio doveva ancora arrivare. “In cima al Gavia, 2652 metri, non si capiva più nulla. I corridori s’infilavano nelle ammiraglie, nei pullmini, si stringevano, si scioglievano. Io avevo gambali, mantellina e berretto di lana. Cominciai a scendere con prudenza. Temevo di precipitare nel vuoto. Dopo un chilometro mi superarono Rosola e Bontempi: cambiati e scaldati, si buttavano giù come matti. Vidi un poliziotto, fermo, piangeva per il freddo. A metà discesa Shelley, la moglie di un corridore australiano, mi allungò una borraccia, c’era whisky, ne trangugiai metà, il resto – mi disse lei riprendendosi la borraccia – serviva per gli altri corridori della sua squadra. Non so come, arrivai a Santa Caterina Valfurva. A cinque-sei chilometri dall’arrivo vidi l’ammiraglia della Alfa Lum-Legnano ferma al bordo della strada, dentro Marco Zen e il direttore sportivo Carlino Menicagli, riscaldamento al massimo e ventola a palla, mollai la bici ed entrai, cinque o sei minuti per riprendermi, due o tre volte tentai di uscire, finché ci riuscii. Arrivai al traguardo 143° e ultimo, ultimo anche dei quattro – Longo, Zen, Cipollini, ma Cesare il fratello di Mario, e io – fuori tempo massimo”.
Non è finita. “Superato il traguardo, il papà di Marco Giovannetti, un omone, mi staccò dalla bici, mi prese in braccio, mi portò in albergo, che stava vicino all’arrivo, mi introdusse in camera e mi immerse nell’acqua calda della vasca da bagno. Da solo non ce l’avrei mai fatta. Rimasi a mollo mezz’ora. Intanto Valdemaro Bartolozzi, il direttore sportivo, mi fece riammettere in corsa: una vergogna, sbottò con la giuria, Petito è uno dei pochissimi ad averla fatta tutta in bici. La mattina dopo ero pronto al via. L’ultimo giorno, nella prima semitappa, nonostante le giunture ancora bloccate, fui decimo in volata. Ma fino alla Milano-Sanremo del 1989 il pollice sinistro rimase insensibile e per anni ebbi la fobia del maltempo”. Sul Gavia Petito non è più tornato.
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