Al Giro la Rai mi ha concesso un piccolo spazio che ho cercato di riempire in fretta con la campagna #LaStradaèDiTutti a partire dal più fragile. Campagna che già avevo lanciato sui social qualche giorno prima della partenza della corsa rosa. Si poteva fare molto di più e in modo migliore, ma è la prima esperienza per me in tal senso e credo di essermela cavata abbastanza bene. Intervistare i corridori, i giornalisti lo sanno bene, è sempre difficile. Scappano, si nascondono, non scendono dalle stanze di albergo, non sprecano energie in nessun modo. Insomma, ci vuole pazienza. Poi, se l'argomento è la sicurezza stradale è ancora più dura.
Fin dalla morte di Michele mi è apparso chiaro che l'argomento in gruppo è stato sempre sottovalutato. Non che i professionisti non sappiano andare per strada, anzi sono i migliori e le statistiche dicono anche che i ragazzi iscritti alle società di ciclismo subiscono meno collisioni. La strada è il luogo di lavoro per un professionista ed anche per i giovani che sognano di diventarlo. Un luogo che non finiscono mai di conoscere: il luogo di lavoro più insicuro al mondo. Ma cosa possono fare i ciclisti professionisti per contribuire a cambiare questa società?
Una società che in ogni istante passa loro accanto a un palmo di mano, svolta a destra e a sinistra veloce e distratta, una società che in qualsiasi momento potrebbe distruggere uno sport per duri, ma fragilissimo, come il ciclismo. E lo fa sistematicamente. Il calo di bambini e ragazzi iscritti alle società di ciclismo su strada è un dato di fatto, che sta a dimostrare come questo sport non abbia la forza di chiedere e andarsi a prendere la sua strada e il suo futuro. Il grande aumento di ragazzi che scelgono la mountain bike (e di amatori ultraquarantenni che si riversano sulle strade la domenica) vuol dire che sono sempre di meno coloro che vogliono mettere il proprio figlio su una bici da corsa, perché la strada è pericolosa. Michele diceva sempre che prima o poi qualcuno l'avrebbe investito, era cosciente del pericolo cui andava incontro ogni volta che saliva in sella e partiva da casa, eppure continuava a uscire. Quello era il suo mestiere e lui lo sapeva svolgere in maniera impeccabile, ma sulla strada non conta soltanto il tuo comportamento. Michele è stato ucciso da una persona alla guida di un furgone che non c'entrava niente con il Giro, con la bicicletta, con la fatica dei corridori, con i sogni dei corridori, con il mestiere dei corridori. O forse sì?
Il ciclista lavora a contatto con ognuno di noi: con l'avvocato e il muratore, con l'insegnante e lo studente, con il camionista e il corriere, semplicemente perché tutti andiamo in auto sulla strada, che è anche il luogo di lavoro del ciclista. Il ciclista dipende da ognuno di noi che usiamo la strada con l'auto, dalle condizioni della strada e da se stesso. Il ciclista lavora nudo e nel nostro Paese è sempre più visto come un intralcio, un non autorizzato a occupare quel margine destro pieno di buche e di insulti: il suo luogo di lavoro.
I ciclisti professionisti per tutelare se stessi non devono soltanto rispettare le regole del codice della strada, pretendere massima sicurezza nelle gare, assicurarsi che la propria bici sia a posto, aumentare la sicurezza passiva e richiedere il metro e mezzo di distanza per i sorpassi (che finalmente è stato inserito nel nuovo codice della strada ancora da approvare) ma devono pretendere LA CULTURA DELLA SICUREZZA STRADALE. Devono parlare alla società. Farsi portatori di un messaggio molto più grande che coinvolga tutti gli utenti della strada, soprattutto coloro che la occupano totalmente con i mezzi motorizzati, un messaggio di rispetto a 360°, che abbia una ricaduta su tutte le strade della società. Devono chiedere e pretendere più controlli, più comunicazione e campagne di sensibilizzazione a riguardo; devono entrare nelle scuole di ogni grado e nelle scuole guida. Devono insegnare agli amatori a non “scimmiottarli” in tutto, soprattutto nelle prestazioni; devono innescare in chi va in bici su strada e in chi organizza le Granfondo una nuova cultura della bicicletta, basata sulla bellezza, sul rispetto delle regole, dove la competizione sia al minimo e non tutto. I ciclisti professionisti devono darci una mano, perché hanno tutto dalla loro parte, perché nessuno come loro conosce la strada e perché in molti li guardiamo. Ma non saranno solo loro a cambiare le strade del nostro Paese e a renderle più sicure e desiderabili per chi ama percorrerle in bici.
Domenica, mentre il Giro si concludeva raggiungendo l'Arena di Verona, a Roma migliaia di ciclisti si sono riappropriati delle strade occupate quotidianamente dalle “maghine” per dar vita alla CIEMMONA, la Critical Mass interplanetaria che ritornava nella capitale dopo 5 anni. Organizzata dalle Officine Popolari, è stata una vera festa di colori. Domenica era il giorno conclusivo della festa e si andava tutti a Ostia. Potete vedere ovunque, sul web, foto di auto in colonna da una parte e di un serpente lunghissimo di sorrisi in bici dall'altra. Un serpente di pace e di amore per la vita. Qualsiasi vita. Scrive Manuel Massimo direttore di Bikeitalia.it: “Il motto della Ciemmona di quest'anno era 'NO BORDERS', senza confini: un messaggio di inclusione pro-migranti veicolato dalle biciclette ma declinato anche in chiave interplanetaria, con carri-astronave e ufociclisti che hanno invaso pacificamente le strade per mostrare agli umani chiusi negli abitacoli delle loro automobili che una mobilità diversa – a misura di persona e rispettosa dell'ambiente – è possibile pedalando verso l'infinito e oltre.”
Nella Ciemmona si pedala senza confini verso l'infinito, il Giro d'Italia è amore infinito, dunque domenica, ad andatura diversa, si è pedalato sia a Roma che a Verona sulla stessa strada: l'infinito. Due eventi vissuti in sella ad una bicicletta, apparentemente così distanti, sono in realtà vicinissimi e spero che qualcuno se ne accorga, prima o poi, creando quel contatto che può veramente cambiare le status quo sulle strade.
Marco Scarponi, fratello di Michele
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