
Cominciò gregario, finì capitano. Cominciò aiutante, finì vincente. Cominciò maglia grigia, finì maglia rosa. Cominciò Vasco Bergamaschi, finì Singapore. Vincitore del Giro d’Italia del 1935. E a 90 anni di distanza da quello che sarebbe rimasto la sua gioia più forte, la sua San Giacomo delle Segnate gli rende omaggio mercoledì 9 aprile, alle 21, nell’anfiteatro di piazza monsignor Gilioli, ingresso libero.
Quel Giro. Diciotto tappe, ma due divise in due semitappe, totale 20, quasi 3600 km di strade da Milano a Milano calando fino a Bari e spuntando fin sul Sestriere. Tra Binda e Guerra, Di Paco e Olmo, il francese Archambaud e il belga Demuysere, a imporsi fu lui, Vasco Bergamaschi. Aveva 25 anni, era nato a San Giacomo delle Segnate nella Bassa Mantovana, aveva iniziato a correre come garzone di un panificio. Su una bici pesante come un cancello fu notato da Learco Guerra, convinto prima ad abbinare il pane alla bici, poi a fare della bici il suo pane quotidiano. Divenne “il fornaio volante”. Scuola poca (in una cartolina, dopo la vittoria nella Coppa del Re nel 1930, usò il superlativo assolutissimo “ti mando i più migliori auguri”), dilettante nella Nicolò Biondo di Carpi (la squadra che avrebbe battezzato anche Ercole Baldini), professionista nella Maino (più tardi nella Bianchi e nella Viscontea), gregario della Locomotiva Umana, Vasco era già Singapore: occhi a mandorla dalla nascita, naso da pugile dopo una caduta, sembrava orientale quando la Cina suonava come una leggenda e il Giappone come una favola. Da gregario, Bergamaschi si sacrificava: spingere, tirare, inseguire, prendere acqua e portare borracce, e rischiare la vita. Come nel Giro del 1934, quando in una discesa, per salvare Guerra uscì di strada, piombò contro un albero, si fratturò una clavicola e terminò la corsa in ospedale. All’arrivo finale di Milano, a salutare il suo capitano Guerra vincitore, c’era anche lui. Ma a proprie spese. La Maino si era rifiutata di rimborsargliele.
Un anno dopo, al Giro del 1935, la storia fece una capriola. Fuga fortunata, volata indovinata, vittoria imprevista e maglia rosa inaspettata fin dalla prima tappa. Poi Vasco tornò, forse anche con sollievo, a recitare da gregario. L’occasione fatale nella Porto Civitanova-L’Aquila: qui, sulla Forca delle Capannelle, decollò Gino Bartali e conquistò la prima vittoria di tappa, qui Singapore si rimpossessò del primato della corsa, che non avrebbe più lasciato nelle successive 12 tappe. Primo davanti a Martano e Olmo, quarto Guerra, quinto Archambaud, sesto Bertoni e settimo Bartali.
Sarebbe tornato a fare il gregario, Bergamaschi, per indole originaria, per modestia caratteriale, per limiti fisici. Gregario anche nella nazionale italiana che partecipava al Tour de France: e per non esaurirlo, nel 1938 la Federazione gli impedì di correre il Giro prima del Tour.
Dopo la Seconda guerra mondiale, quando aveva donato ori, argenti e bronzi alla patria, Vasco ricominciò con il ciclismo, prima con una bottega da meccanico a Sermide, poi ancora nelle corse, non più a due ruote umane ma a quattro motorizzate, direttore sportivo, anche di Nino Defilippis e Aldo Moser, il primo della dinastia trentina, di Cleto Maule e Tranquillo Scudellaro, ma anche di fenomeni e disgraziati. “Circuito di Firenze, ma a Sesto Fiorentino, nel 1962 – mi ha raccontato Olimpo Paolinelli -, tirai la volata a Guido Carlesi, che non era della mia squadra. Il mio direttore sportivo Vasco Bergamaschi mi domandò perché lo avessi fatto. Gli dissi la verità: Carlesi mi ha promesso 150 mila lire”. A quei ragazzi, come scrisse Mario Oriani, Singapore faceva da “balia asciutta” sull’ammiraglia “a forma di siluro”, sedendosi spesso “sullo sportello della macchina come un’amazzone” e guardando “lo svolgersi dell’azione”, per “ragazzi che, più o meno, dovranno farsi le ossa”. Che per i gregari, come Bergamaschi sapeva sulla propria pelle, significava anche spaccarsele.
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