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Era così legato a Learco Guerra – raccontavano i vecchi del ciclismo – che quando la Locomotiva Umana si fermava a fare la pipì, si fermava anche lui. Fabio Battesini stava a Guerra come Sandrino Carrea a Fausto Coppi e come Giovannino Corrieri a Gino Bartali. Il suo gregario. Una sorta di diritto di proprietà, reciproca, il gregario al campione, ma anche il campione al gregario. Dal gregario: devozione. Dal campione: rispetto. E da tutte e due le parti: amicizia.
Battesini aveva dieci anni meno di Guerra: oggi, 19 febbraio, sarebbero 113 anni dalla nascita, a Cappelletta, una decina di chilometri a nord di San Nicolò Po, nel Mantovano. Del gregario non aveva le stimmate: lui era un altro campione. Ma non lo era con la testa. Che allora significava innanzitutto vita da atleta, anzi, vita da corridore. In una sola parola: astinenza. E l’astinenza non era il suo forte. Troppo bello, troppo allegro, troppo vivo per non darsi e per non prendere. Fu la strada a unirli, Guerra e Battesini. Accadde nel 1927, quando erano tutti e due dilettanti. E Guerra al suo primo anno di ciclismo. Si correva a casa loro, a Bagnolo San Vito. Primo Battesini, secondo Guerra.
Riscopro Battesini in un libro dedicato a Guerra. Lo ha scritto Learco Guerra junior, nipote della Locomotiva Umana (“Era mio nonno”, Edizioni ZeroTre, collana La coda del drago, 218 pagine, 18 euro, con la prefazione di Pier Bergonzi e la postfazione di Adalberto Scemma, ne ho già scritto qui). L’incontro tra Battesini e Guerra nipote fu affettuoso, le lingue – alternate – italiano e mantovano, i ricordi ancora accesi. Gli allenamenti: “Uscivamo normalmente a giorni alterni per fare 200-250 o anche 300 chilometri, durante i quali tuo nonno si alimentava continuamente con piccoli panini. Ci fermavamo solo alle varie e ben note fontane dei paesi per rifornirci d’acqua”. L’andatura: “Ci cuoceva tutti a fuoco lento, tanto è vero che a uno a uno ci staccavamo e tornavamo a casa rimbambiti e mezzo addormentato come le oche. Nessuno correva il rischio di dargli un cambio e passare davanti”. L’eccezione: “Arrivato insieme in quel di Cerese di Virgilio, si fermò sul ciglio della strada in corrispondenza di quei mucchi di ghiaia che allora erano presenti per sistemare il fondo sterrato, si sedette, mise gli occhialoni sul berrettino e disse: Dig an qualdun cam vegna a tor e am porta a cà, a gla fag pù (avverti qualcuno che mi venga a prendere e mi porti a casa, non ce la faccio più)”. Il recupero: “Ci sedevamo sulle panche e facevamo fuori un’intera anguria ciascuno con il cucchiaio”.
Il nipote chiedeva del nonno, così Battesini rivive di luce riflessa. Quella riunione in pista: “A Marsiglia. Eravamo l’unica coppia italiana. Fummo accolti da tutti gli esuli fuoriusciti come degli dei. Ci correvano incontro per invitarci a casa loro per cena o pranzo”. Quella Sei Giorni: “A Parigi, nel 1934. Usualmente dormivamo tre ore a testa alternandoci in pista dalle 3 di notte alle 9 del mattino poi si riprendeva la gara. Ma a tuo nonno non andava mica bene la situazione in classifica e allora invece di fermarsi tirò diritto fino a quando le cose non si erano sistemate come voleva lui”. Quell’incontro: “In quell’occasione abbiamo incontrato ancora Josephine Baker (cantante, ballerina, soubrette, ndr), ma non ti dico com’è andata a finire!”. Quel segreto: “Non prendevamo mai niente. Avevamo il borraccino di alluminio con dentro del caffè mischiato con della peptocola (ricostituente di marsala all’uovo concentrato, nda). All’epoca si diceva che Binda nel borraccino metteva solo dello champagne! Mah!”.
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