La vocazione: “Mi ero messo in testa di diventare qualcuno. A San Nicolò Po, dove venni al mondo, ripetevo: anch’io farò faville in bicicletta. E non ridete, se non volete che quando sarò ricco vi venga addosso con un’automobile”.
La ribellione: “Continuavo a dire a me stesso che ero stufo di fare il muratore. Avevo le spalle incallite, le mani screpolate dalla calce e, quando faceva freddo e la calce gelava, incominciava il mio periodo di disoccupazione”.
Il dubbio: “La diagnosi intimidatoria del medico di fiducia: ‘Non puoi sostenere queste fatiche; se continui così, con il fegato che hai, fra sei mesi sei morto!’”.
L’esordio: “Milano-Sanremo. L’accoglienza in squadra non è delle migliori, tanto che il massaggiatore del capitano Negrini lo apostrofa come ‘un raccomandato’”.
Lo avrebbero soprannominato “la Locomotiva Umana”. Andava a legna, a carbone, a vapore. Sferragliava, ruggiva. Mulinava. Appiattiva le colline, asfaltava gli sterrati. Occhialoni da motociclista, ciuffo al vento, fauci spalancate. Sfilava gli avversari dalla ruota. Un uomo chiamato bicicletta.
Learco Guerra, il campione e il nonno, raccontato da Learco Guerra, il nipote. Frugando fra i ricordi, scavando fra gli amici, interrogando la terra, riesumando le lettere, scartabellando fra le fotografie, inabissandosi negli archivi, che non abitano solo nelle cassapanche ma soprattutto nei cuori.
E’ un gran bel libro, “Era mio nonno” (Edizioni ZeroTre, collana La coda del drago, 218 pagine, 18 euro, con la prefazione di Pier Bergonzi, la postfazione di Adalberto Scemma e l’epicedio di Gianni Brera). Learco junior resuscita Learco senior, in tutta la sua umanità. Quella di figlio, marito, padre e, appunto, nonno. Quella di corridore, da già vecchio debuttante (neoprofessionista a 27 anni, un’età in cui, oggi, molti hanno già smesso) fino a (e oltre) campione del mondo. Lo fa tra aneddoti familiari: “Alcuni giorni prima che nascessi circolava in famiglia la volontà di chiamarmi Mara, e tuo nonno appena lo seppe se ne uscì sbottando: ‘Ma sì, sarebbe stato singolare. Non è sufficiente che mi trovi a rivaleggiare con Mara (un rivale, ndr) che me ne devo trovare un’altra anche in famiglia!” (la testimonianza di una zia). Lo fa anche fra citazioni letterarie: “Lirico è Binda drammatico è Guerra; e la moltitudine è per Guerra. Gli occhi in fiamma, i muscoli in tumulto, la pedalata furente, la macchina squassata dai colpi rudi, le mascelle inchiodate, Learco Guerra passa” (Bruno Roghi).
E dopo gli anni da corridori, quelli da direttore sportivo. A cominciare da Hugo Koblet che, nel 1950, fu il primo straniero a conquistare il Giro d’Italia. Si respira Learco Guerra senior anche in sua assenza. Giro dell’Appennino 1961, Federico Martin Bahamontes correva per la Vov di Learco, ma quel giorno “dovette ritirarsi e salì sull’auto guidata da mio padre che me lo presentò con il soprannome che gli avevano attribuito per le sue imprese sulle salite del Giro e del Tour: ‘L’Aquila di Toledo’. Io sul sedile posteriore ero al settimo cielo, avevo a pochi centimetri una delle leggende del ciclismo iberico e mondiale che rispose alla presentazione di mio padre con un italiano un po’ incerto: ‘Eh! Oggi l’Aquila di Toledo è spennacchiata!’. E scoppiammo a ridere tutti” (il racconto di Gino Guerra, figlio di Learco).
Il vecchio campione stava già tramontando. A vincerlo, più delle fucilate di Binda, più delle bizze di Gaul, fu il morbo di Parkinson. Una prima operazione. Una seconda. E “la Locomotiva Umana” deragliò.
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