Forse, con tutto quello che si offre ogni giorno in visione, che in qualche modo si pubblica e che ogni tanto si deve pure leggere, se non altro per reagire all’informazione quotidiana e ormai pressoché ineludibile relativa a massacri, guerre sin troppo vere o un bel po’ finte, corruzione in alto, truffe in basso, violenza spalmata un po’ dovunque e violenze intime espletate magari in balorde mimetizzate speziature, è giunta l’ora, anche nelle memorie sportive e specialmente ciclistiche, di sdoganare taluni particolari ricordi personali e soprattutto di liberarli da una certa ipocrisia nella gestione mnemonica, rappresentativa, commemorativa di essi. Intendo ricordi di episodi coinvolgenti persone (io in primis), ambienti, usanze, insomma entità varie implicanti ricordi di virtù e soprattutto di vizi. Insomma, roba in qualche modo chiaro o contorto collegata a quel mondo che vien detto “a luci rosse”. Un mondo che si legò eccome a quello dello sport, specie se itineranti dunque specie se ciclistico, con proposta o meglio offerta continua di novità, sperimentazioni, avventure, collaudi.
Passo, mi sposto, mi calo, mi innalzo al ciclismo cronogiornalisticamente definito eroico e ai suoi tempi, per dire che era anche e in certi casi sin troppo ciclismo dei bordelli in località assortite, delle novità sessuali acquisibili un giorno là un altro lì, rigidamente a pagamento e talora coinvolgendo il maquillage complessivo delle note spese. Non dico tanto le corse di un giorno, con in Italia su tutte la Milano-Sanremo che, relativamente insapore, specie se la serata della vigilia meneghina era stata calma e parca, convocava tanto del seguito alla roulette del Casinò, con rientro in sede che spesso veniva effettuato la sera stessa della corsa, magari all’alba del giorno dopo, a serbatoio dell’auto per fortuna ancora pienotto e portafoglio spesso vuoto. Dico il Giro d’Italia, dico specialmente il Tour de France (e se ho un vuoto di esperienze riguarda la Vuelta, di cui pure si narravano meraviglie da harem proposto in ogni sede di tappa appena importantuccia).
Il Tour specialmente per noi italiani governati dalla Democrazia Cristiana, il Tour che era anche e soprattutto Parigi, “la ville du monde” ma anche “une blonde”, le Folies Bergère (traduzione letterale “follie pastorella”, da morire - adesso - dal ridere) con idealmente sempre Joséphine Baker a tette nude, certi quartieri dove la meno bella delle “filles de joie” appariva come una una superfata tutta disponibile col solo infimo dettaglio del denaro a lei, i primi spettacoli ”forti” in localucci ad hoc… L’ultima frazione della corsa, solitamente una cavalcata senza scosse di classifica, era il pretesto per andare dalla penultima località di tappa, finito in fretta sospetta il lavoro, a Parigi già la sera del sabato. Io accedetti a quel mondo che ero poco più che un ragazzino ancorché, facevo il “trombettiere” nel senso che dettavo al telefono, per scafatissimi stenografi sempre ciclosaccenti, l’articolo scritto in sala stampa dal giornalistone mio capo, e poi dovevo pure trovare il tempo per scrivere, in una rubrica definita di colore e però per me grigissima di spazio ridotto in pagine secondarie, le mie cosine di neofita o quasi. Mi fermo al mondo dei giornalisti italiani anche perché di quelli francesi, superpreponderanti, moltissimi erano parigini e celebravano il ritorno a a casa, non l’accesso a piccole provvisorie perdizioni. Ci trovavamo in tanti nello stesso ristorante vicino a dove allora aveva i suoi uffici L’Equipe, poi a due passi il Concert Mayol con “les danseuses nues” (ma sempre il “cache-sexe”) e da lì la tentacolarissima Rue Saint Denis, e gli appuntamenti presi di anno in anno con Gigi, vecchia grande sacerdotessa del culto di Venere.
(Ma c’era anche il Tour della stimolante di cibi, vini e cultura provincia francese, delle città che non erano altre Parigi ma che per gli esperti tenevano seduzioni particolari. Ricordo un celebre giornalista italiano, fra l’altro fine umorista, che mi disvelò Avignone intesa non come Palazzo dei Papi ma come locale dove lui mi elencava le origini esotiche di questa e quella imprescindibile etèra).
In Italia la legge della senatrice Merlin aveva chiuso le case chiuse nel 1958, quando da tempo la stralibera Francia ignorava e spupazzava le leggi della quasi omologa madame Richard. E poi Parigi era comunque sempre Parigi, La città dove a luglio, intorno al 14 festa nazionale, la gente circolava nuda in segno di massima libertà. Così avevo detto al mio autista smanioso che a Torino mi si era rivelato come il massimo sessuomane sabaudo di ogni tempo, e che ad ogni tappa si annunciava ad alta voce più vicino alla finalmente “sua” Parigi: credevo che lui non mi credesse, e invece quel primo luglio nostro insieme registrò una sua forte delusione e un calo mio totale di fiducia accordatomi.
Potrei scrivere un volume, magari migliore di tanti altri che non ho scritto, su sesso e ciclismo, anzi ciclismo e sesso. Ho conosciuto dame bianche ma anche damigelle nere che veniva facile e comodo pensare confluite a Parigi pro nobis dai territori francesi d’Oltremare, attratte dalla Ville Lumière. Temo la bavosità che è tipica dei vecchi più prossimi ai 90 che ad ogni onirica Parigi, passo e chiudo (o chiudo e passo?).
da tuttoBICI di febbraio
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