Se ne è andata di inverno, per il bambino Paolo, l’estate dei suoi anni. Se ne è andata a dicembre, ancora prima del solstizio e di Natale, con la scomparsa a 90 anni di Rik Van Looy, il grande ciclista belga, l’estate dei suoi anni.
Se ne è andata, da quella casa rosa di villeggiatura, a Carano, dove il bambino Paolo - vestito da adulto maturo - è tornato pure l’altro giorno, per rassettare il tempo e mitigare a stento il gelo delle sue pareti: casa “Della Rosa”.
Se ne è andata l’estate, non solo quella del 2024, ma il concetto dell’estate, e le mani sue sfogliavano discrete e prudenti la carta secca delle raccolte de Lo Sport Illustrato dei primi anni ’60, sfuggite ai rassetti algidi delle giovani domestiche. Che vuoi che sia per loro, o anche per i figli, anche per i nipoti, quella montagna di giornali. Chi era Zilverberg?
Se ne è andata, e la memoria a stento del bambino Paolo tiene a mente - ora che di quei suoi dieci anni potrebbe esserne appunto nonno - la sua prima bicicletta, al tempo vivo di Van Looy.
Lasciava i libri di Salgari, Sandokan e Tremal-naik, per montarci su, la mattina presto, in campagna, le estati infinite di Carano, la sua prima bicicletta. Sfuggiva, il bambino Paolo, alle mani ruvide della nonna Rosa che stropicciava ancora il suo viso di acqua fresca, lei che diceva che si lavava come i gatti, e via. Il Tourmalet, l’Izoard, l’Aubisque, lo Stelvio erano lì, sui cento metri di un sentiero sdrucito fra gramigna e terreno, dalla casa di famiglia a quella dei coloni Di Meo, più in su. A cavallo di un ponte di legno malfermo, che valicava una vecchia strada interpoderale.
La sua prima bicicletta era lì, una Bianchi 18, con tanto di manubrio da corsa e borraccia, di latta come una stella da sceriffo, e addirittura il cambio di velocità, incredibile, che un ingegnoso artigiano di Sessa Aurunca, nella bottega vicino alla Annunziata, era riuscito ad adattare ad una bici così piccola.
E si chiamava su quella biciclettina, a 10 anni Pasqualino Fornara, ancora in lacrime per la sconfitta drammatica del Giro del ’56, nella tempesta del Bondone, il suo Fornara, il melodramma... E raccontava le corse a modo suo, da cronista: già, ultimo Coppi, o al massimo penultimo. E tra i peggiori, sempre un belga, Van Aerde, e uno svizzero, Vaucher, spiegategli voi il motivo. E la sua prima bicicletta, bici col cambio da grande, era l’orgoglio del bambino Paolo, ogni volta che poi dalla campagna si andava a Carano, il pomeriggio del sabato per un gelato, sul Corso.
E i ragazzi del paese, gli scugnizzi, lo seguivano per guardarla, per ammirarla anche troppo da vicino. E lui aveva un po’ paura che volessero prendersela, e si stringeva al padre, le volte che lui c’era, che non era rimasto a Napoli, all’Università.
E lui bastava si voltasse indietro, per ammonirli severo, e loro dileguavano solo per quella occhiataccia. E il bambino Paolo, rincuorato, scattava allora, riscattava ancora: dietro la curva dello stradone della Stazione, inventava il traguardo volante. “Vaiii, Paolooo, vedi che non sei più il moccioso che piange per quel Fornara, sei diventato un ragazzino grande e forte, sai, proprio come è il belga Van Looy”.
La voce del padre, il suo raro sorriso, il nome per la prima volta inteso al cuore di Rik Van Looy nell’estate del 1960, benedetto dal padre come emblema del campione assoluto: senza macchia e senza paura, un Cid Campeador.
Il volto di Van Looy, in quelle annate de Lo Sport Illustrato, le sue imprese e quel Giro d’Italia sempre mancato, il bambino Paolo se le carezzava ancora. Ma piano piano, sono fogli di ostia quasi, piano piano per non fare male al campione invitto della FAEMA, per non arrecare loro danno, per non svegliarle.
Già, il bambino Paolo, anche ora che a gennaio 2025 ha una ben altra età, è ancora grande e forte come Van Looy. Solo che Rik, anche dopo la sua fine il 17 dicembre 2024, resterà immortale.
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