Se la giovinezza è un lungo sabato, la Festa del Primo Maggio non aveva per noi ragazzini, ovunque, giorno di festa da scuola, questa condizione.
E nel 1960, a Napoli, fu l'occasione tanto agognata e tanto strappata alle cronache de 'Il Mattino' di applaudire sul lungomare Caracciolo i grandi campioni del ciclismo su pista, quella disciplina vagabonda, di velodromo in velodromo, allora tanto popolare oggi solo romantica, che incendiava i cuori e gli sguardi, fra surplace e testa a testa, fra rush finali ed inseguimenti dal rettilineo opposto a quello giusto, la Villa Comunale e la Rotonda Diaz a fare da testimoni.
C' erano tutti, quell' anno, alla Riunione tipo Pista promossa a Napoli dal cavaliere Improta, tutti, un recital come a un festival: l'autoritario Derksen, il ruvido Plattner, il funambolo Gaignard, veniva dal ciurcio, il mite Sacchi, l'irriducibile Faggin, il fascinoso Ogna, l'imperturbabile De Bakker...
Ma tutti, innanzitutto, e noi bambini in prima fila, eravamo a sgaiattolare fra le transenne, si aspettava emozionati ed avvinti alla carezza del sogno, quel duello gentile, mica tanto però, fra Antonio Maspes, il divo antico, campione del mondo in carica, e Sante Gaiardoni, l'astro nascente, un dilettante destinato alle Olimpiadi, senza timore alcuno.
E ricordiamo ancora, sono sessanta anni esatti, senza sconti, la singolare lezione di vita che ci fu impartita allora. Noi che tifavamo scamiciati Maspes, 'vaiiii, Maspes', ed un signore altezzoso con il cappello, come si usava allora, che ci apostrofò severo, 'ragazzino, ma perchè mai tifi Maspes, che è uno straniero, e non invece Gaiardoni, che è un italiano?'.
Come se a Napoli, e in Italia, e nel mondo, il Primo Maggio, Festa del Lavoro solidale, anche un cognome tronco bastasse, erroneamente, a sancire una diversità. O una estraneità. O una ostilità.
E sarà anche per questo, che da sessanta anni in qua, a Napoli e in Italia, in bicicletta o no, consideriamo sempre più amico chi abita più in là.
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