A gennaio l’anniversario della nascita, a febbraio quello della morte: ogni anno, stavolta con la suggestione de cinquant’anni ipotetici, la tribù del ciclismo si raccoglie compatta attorno alla sua icona, una delle più care e venerate, Marco Pantani. Peccato che puntualmente, immancabilmente, testardamente, ogni volta si chiudano le malinconiche celebrazioni con questo messaggio sotteso: era un martire, l’ha fatto fuori il mondo cattivo, che non lo meritava.
Inutile premettere che ero pure io pantaniano. Non ne farei alcun merito, né mio né di tutti gli altri: come facevi, allora, a non essere pantaniano. L’esaltazione pura per i suoi attacchi, su tutti quello del Galibier, contro Ullrich, che per coincidenza della storia ebbi il gusto di commentare con l’indimenticabile Adriano De Zan e con Davide Cassani, quando ancora la Rai chiamava a turno tutti i giornalisti e non solo gli amichetti devoti, l’esaltazione per quel modo d’essere, unico e irripetibile, chi mai sarebbe riuscito a non provarla. Solo una categoria, diciamolo: gli invidiosi. Ma di questi pidocchi, che infestano il mondo in tutte le età e in tutte le situazioni, non bisogna tenere conto. Nessuna piccineria può incrinare il mito di Pantani. E neppure il doping: è ormai appurato storicamente che per quanto dopato, batteva comunque dei dopati come e più di lui, per cui il merito resta realisticamente intatto.
E qui mi fermo, trattenendo per me le foto con lui in maglia gialla sui Campi Elisi e tanti ricordi di avventure comuni. Il resto, invece, proprio non riesco a condividerlo. L’idea del martire, giustiziato dalla cattiveria del mondo che non l’ha capito, come un Giordano Bruno o perché no un povero Cristo, questa idea non mi piace. Eppure, puntualmente salutiamo Pantani con questa conclusione collettiva. Anche stavolta. Perché questa catarsi senza se e senza ma, potrebbe chiedersi un ignaro sbarcato l’altra sera da Saturno. Io ho una mia risposta molto chiara e semplice: come diceva Tolstoj, la storia sui libri la scrive gente interessata, per mille motivi, personali o ideologici, comunque gente con dei filtri davanti. Filtri deformanti. Su Pantani, prevale e si impone la versione costruita nel tempo da una certa lobby, ramificata da Cesenatico fino dentro importanti organi di informazione. E siccome a me non piace stare sul generico e sul fumoso, per capirci meglio faccio anche qualche nome e cognome, senza mancare di rispetto a nessuno.
Il Pantani martire del mondo cattivo trapela dai servizi della Rai, dove c’è un vicedirettore, la De Stefano, che ha strettissimi rapporti di amicizia con la famiglia Pantani. Suo marito ci ha pure scritto sopra un libro, il libro più critico nei confronti degli inquirenti riminesi. Una musica più o meno simile suona anche nei servizi Mediaset, dove da anni Davide De Zan combatte a suon di confutazioni chimiche e biologiche la battaglia del complotto e dell’intrigo, con Pantani stabilmente dalla parte della vittima. Ad un certo punto si è accodato pure Francesco Ceniti, della Gazzetta, anche se quell’epoca non l’ha vissuta direttamente e per quanto meticoloso deve comunque affidarsi a voci e materiali di riporto. Sorvolo poi sull’innocentismo di cassetta, a prescindere, solo per lisciare il pelo alla pancia dei tifosi, di un certo giornalismo che dal primo minuto, senza un elemento in mano, sparò titoloni del tipo vergogna, Pantani è una vittima.
Rispetto al massimo grado il lavoro dei colleghi. Però niente e nessuno può impedirmi di dire, senza ipocrisie e buone maniere di circostanza, che un certo lavoro di santificazione e martirio di Pantani sa molto di fiction. Cioè di testo liberamente interpretato. Si pesca quello che piace e si ignora quello che non è funzionale allo scopo. Un lavoro che mi ricorda certi videogiochi interattivi per bambini, quelli in cui è possibile cambiare a proprio piacimento la fiaba, facendo deviare Cappuccetto Rosso dal bosco in modo che non incontri mai il lupo. Ma se si vuole essere davvero rigorosi, cercando la verità comunque sia, non la verità che vogliamo, non è possibile, proprio non è possibile, omettere tutto il resto.
Quello che so io, quello che ho vissuto io, quello che non trovo mai nelle celebrazioni di inizio anno, è purtroppo molto penoso. È il Pantani che non dà retta e cancella dal suo radar chi lo vuole aiutare, è il Pantani che frequenta brutti giri notturni, è il Pantani che inesorabilmente si avvita sempre più su di sé, tra depressione e polvere. Come si fa a raccontare Pantani ignorando i disperati tentativi del Sert di Ravenna, il ricovero con fuga dalla clinica specializzata di Teolo (Padova), l’invito (rifiutato) di un prete valoroso per un soggiorno di recupero nelle sue comunità in Sudamerica. Come si fa a ignorare le farneticazioni e i deliri che Marco lasciava scritti su libri, scatole di cerini, muri, preda ormai di spettri spaventosi. Questo e tutto il resto: soprattutto, gli ambienti e le persone che frequentava, dai peggiori spacciatori (persino nella clinica di Teolo gli portarono droga) fino agli squallidi parassiti che pensavano solo a salvare la slot-machine, raccontando il falso storico di un Pantani in grande ripresa. Questo e il resto, continuo a dire. Il resto che tanti amici intimi conoscono bene e che per pudore, per rispetto, per pietà, per amicizia vera, evitano di rimestare.
Pantani non ha vissuto una vita facile. Sin dall’inizio. Su questo sono tutti d’accordo. E proprio per questo, tante sue scelte sbagliate hanno valide attenuanti. Però restano scelte sbagliate. Siamo in presenza di una storia umana complessa, purtroppo tragica, certo stracarica di rimpianto. Eppure. Se ci piace raccontare che Pantani fu santo e martire, continuiamo così, ogni anno, puntualmente e devotamente. Ma se ci piace la verità, dovremmo evitare di nascondere la polvere sotto al tappeto.