RUI COSTA. Un felino dal cuore d'oro

PROFESSIONISTI | 03/02/2014 | 08:55
Alberto Rui Costa non avrebbe dovuto essere un ciclista. Avrebbe dovuto essere un atleta, quello senz’altro, alto e magro, con quegli occhi da gatto tan­to aggressivi da uccidere con un solo sguardo chiunque osasse sfidarlo. Ma all’età di undici anni suo padre lo convinse a scoprire la bicicletta, gli assicurò che gli sarebbe piaciuto, insistette con forza. Gli disse che se ne sarebbe innamorato. E successe esattamente così, con Rui puntualmente innamorato delle due ruote.

La sua ascesa nel ciclismo è stata folgorante: a 20 era già professionista con il Team Benfica e due anni dopo approdava nel ProTour con la Caisse d’Epar­gne. Per quanto veloce sia stata, una storia di passione non lo è fino in fon­do senza che si provi dolore e sofferenza. Le storie d’amore più belle e vi­branti, o almeno le più lette e più ap­pas­sionanti, sono così e non diventano memorabili se non passano attraverso un cuore spezzato in mille frantumi lungo la loro strada. Proprio come so­no le storie cantate dal fado, la musica simbolo del Portogallo. Canzoni di la­crime e dolore.
Il dolore che si prova su un ring di pu­gi­lato, per esempio. Il dolore dei pugni. Carlos Barredo e Rui Costa si sono sfidati in una battaglia campale al traguardo della settima tappa del Tour de Fran­ce del 2010, potendo si sarebbero perfino scagliati dietro le ruote l’uno contro l’altro. Due settimane più tardi festeggiavano insieme la fine del Tour nella notte parigina. L’odio. E poi l’amore.

Il dolore può anche essere incomprensibile quanto ingiusto. Come quello che Rui provò quando una barretta energetica ha rischiato di interrompere la sua promettente carriera ciclistica. È accaduto tre anni fa quando, qualche settimana dopo il campionato nazionale a cronometro da lui vinto, l’UCI gli riscontrò una positività per uno strano stimolante, la metilexaneamina, che non appariva tra gli ingredienti dichiarati di alcun prodotto che aveva ingerito. Eusebio Unzue lo allontanò dalla squadra e non voleva saperne di riprenderlo con sé, anche perché lo riteneva troppo individualista ed egoista per mi­litare in una squadra come la sua, la cui vera forza è l’unione. Ma Rui insistette, spinto dall’orgoglio e dalla consapevolezza di essere innocente.
Un’innocenza che è riuscito a dimostrare, facendo analizzare una di quelle barrette e scoprendo che era contaminata. Così è riuscito a vedersi ridurre la pena a cinque mesi, anche se quella mac­chia gli resterà addosso per sempre. Così è nel ciclismo, il passato non si cancella, il dolore che hai provato riappare puntualmente ogni volta che qualcuno ti ricorda da dove vieni.

Il dolore di un processo pubblico. È il Rui di Gap, quello allegro e in lacrime sul traguardo del Tour 2013, la sua prima vittoria di tappa nella corsa di tre settimane per eccellenza prima di ripetersi a Le Grand Bornand, nella se­dicesima tappa, al qua­le continuavano a chiedere la stessa cosa. È il Rui che camminava avanti e indietro per la zona mi­sta, piena di giornalisti armati di microfono co­me aquile che volano li­bere e puntano la loro preda. La gente gridava e lo chiamava «Rui, Rui, siamo qui, vieni quiii!!!». E lui aveva un sorriso per tut­ti, aperto da orecchia a orecchia, da uomo felice, sincero su quel volto bianco, mentre raggiungeva la sala stampa dove lo attendeva la prima domanda, sempre quella, con il ricordo del passato e di quella barretta e nella testa le note del fado, con la gioia, l’emozione e la felicità che si tramutano di colpo in tristezza e dolore.
«Sono fatti che appartengono al passato, ai quali preferisco non pensare». Ma come si chiamava la sostanza?, in­sistono. E gli occhi di Rui affondano tristi nel dolore più profondo.
Ma nonostante tutto Rui Alberto Faria da Costa - serve un bel respiro per pronunciare un nome così lungo -, ragazzo dalla personalità a volte arrogante, ma sempre cal­mo e con il volto sorridente, ha sa­puto conquistarsi l’affetto e la popolarità della gente portoghese. Al punto che nel 2012 ha battuto Cristiano Ronaldo nella corsa al titolo di sportivo dell’anno.

E mentre CR rincorreva un al­tro Pallone d’oro, Rui con il petto fasciato dalla maglia iridata che indosserà per tutta la prossima stagione, ha battuto un’altra volta la stella del Real Madrid. Rui è l’eroe che per pri­mo ha regalato al Portogallo il titolo di campione del mondo di ciclismo, grazie alla sua astuzia e al suo carattere esuberante. Il suo 2013 era già una stagione perfetta, non c’era bisogno di ro­vinare la festa alla squadra spagnola a Firenze, ma Rui è fatto così. Lui vuole sempre di più. Basta guardarlo nei suoi occhi felini per intuire la sua fame di vittoria. Quando si è tolto di ruota Val­verde e Nibali per gettarsi sulle tracce di Purito sembrava un cane che punta la preda. Un animale feroce pronto a balzare sull’arcobaleno.

Ma c’è di più, molto di più nel cuo­re del Campione del Mondo. Dietro ad una scorza dura e fa­melica, si nasconde l’anima gentile di un ciclista, un giovane uo­mo capace un anno fa di fa­re una promessa al matrimonio di due immigrati portoghesi in Svizzera. Se fosse sa­lito ancora una volta sul gradino più alto del podio al Giro di Svizzera, lo avrebbe fatto portando in braccio il loro piccolo figlio, che sta combattendo da mesi la sua battaglia contro il cancro. Si chiama Tiago. E Rui ha mantenuto la promessa. Ha vinto il Gi­ro di Svizzera e ha portato con sé sul podio il piccolo Tiago, per spingerlo verso la vittoria più importante.

di Ainara Hernando, da tuttoBICI di gennaio
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COMMENTI
Bella storia ma
3 febbraio 2014 12:08 ciano90
La prima vittoria di tappa al Tour fu a Super-Besse Sancy nel 2011!

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