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Mancano sette mesi al primo mondiale di ciclismo in Africa, visto che si dovrebbero celebrare dal 21 al 28 settembre prossimo (uso il condizionale perché è evidente che in quei territori siano in atto guerre che stanno mettendo a rischio la rassegna iridata). Facciamo finta però che tutto resti così come è nei programmi e quindi avanti nel ragionamento: mancano sette mesi, ma la notizia è che mancheranno alcuni atleti: tutti i giovani - ragazze e ragazzi - di Danimarca, Belgio e Paesi Bassi, mica cotiche. Tre nazioni che ciclisticamente parlando hanno il loro peso, la loro storia e tradizione, soprattutto oggi e mi riferisco in particolare ai danesi.
La ragione è data dai costi elevati della trasferta e dai prezzi degli alberghi che sono lievitati a dismisura per intervento – si dice – della stessa Uci che ha bloccato diverse strutture con la sua agenzia e ha imposto prezzi da mille e una notte (e a nulla centrano le novelle orientali, ma mille per una notte sono gli euro…). Insomma, si parla di promozione del territorio e del turismo, ma poi si pensa immediatamente a fare cassa e il mondiale rischia di diventare una questione per pochi eletti, per quelle nazioni che se lo possono permettere. Per ricchi? Sì, diciamolo, per ricchi. Se un anno fa le camere andavano dai 250 ai 300 euro a notte, adesso le trovi a più del doppio.
Mancano sette mesi, ma c’è il fondato timore che al via della rassegna iridata mancheranno tante piccole nazioni che non avranno la forza economica per affrontare le spese di trasferta nemmeno per la prova più importante: quella riservata ai professionisti, donne e uomini. Volete una idea di costo complessivo? Si va dai 400 ai 550 mila euro per delegazione. Costi importanti, da capogiro, che impongono a moltissime Federazioni un taglio profondo dei costi: chi più chi meno, tutti sono all’opera. Nessuno escluso.
Mancano sette mesi e c’è il serio rischio di lasciare per strada quei Paesi che un tempo venivano definiti emergenti e che, adesso che sono emersi, possono anche affogare. Il problema è che ce ne sono tantissimi, e noi tra questi, che faticano a stare a galla.
CI SONO PAROLE. Ci sono parole che aiutano a vivere, quando ci sembra di morire. Ci sono parole che aiutano a capire, quando i pensieri si fanno torbidi e tetri, privi di una luce che in qualche modo può indicarci una strada. Ci sono parole che è necessario esprimere con il pudore di chi non ha la pretesa di spiegare, ma solo di capire. «Ciao Sara, sei stata un dono», sono quelle usate da mamma Marianna Piffer. «Bisogna capire anche lui, che ha distrutto una vita, ma anche la propria», ha aggiunto invece papà Lorenzo, riferendosi a quel poveruomo di settant’anni della Rotaliana, falegname in pensione che ha travolto e ucciso la povera Sara.
Ci sono parole che non riusciremmo a pronunciare e a pensare, ma c’è chi ci riesce, con la purezza di una vita spezzata. Ci sono persone che spendono parole d’odio, che generano dolore su dolore, ma c’è chi sa trasmettere amore, speranza e conforto anche quando l’unica via d’uscita ci sembra essere quella che conduce alla porta dell’inferno. La disperazione che genera disperazione, rabbia e odio. L’esatto contrario di quello che ha accompagnato queste storie: l’amore per la bicicletta.
Lo sapeva bene Sara, che il 13 maggio dello scorso anno inseguì la vittoria da dedicare al diciassettenne Matteo Lorenzi morto travolto da un furgone pochi giorni prima: la inseguì e vinse. Lo sanno bene i suoi genitori e i suoi fratelli, che continueranno a seguire le corse e a correre, come ha fatto lei e come lei avrebbe voluto. Lo sanno bene anche Michael Antonelli, morto per le conseguenze della caduta nella Firenze-Viareggio del 2018 e Giovanni Iannelli, morto in corsa nel Circuito Molinese nell’ottobre del 2019, così come Tommaso Cavorso, morto a soli 14 anni nel 2010, travolto da un furgone.
Sappiamo bene anche che è necessario lavorare tutti assieme per rendere le nostre strade più sicure, gli automobilisti più responsabili e i ciclisti più consapevoli. Ma ci sono da salvare anche le nostre corse, che rischiano lo stop, perché al dolore delle morti si sommano l’immobilità, la paura e la fuga, perché non si può più rischiare ciò che non si ha per poter garantire la regolarità di una gara. E qui ecco che è necessario che entrino in gioco la Federazione e la politica, per provare a fare qualcosa di più, per fornire sicurezza a tutti: corridori, presidenti, organizzatori e direttori di corsa.
Lo sappiamo bene che mai come in questo momento c’è da sedersi a un tavolo per provare ad alzare l’asticella dei nostri doveri, di ciò che è necessario fare in modo che i sogni delle tante Sara e dei tanti Michael, Giovanni e Tommaso non siano più infranti. Di loro deve prevalere il filo che li ha uniti e che non è certo dato dalla morte, ma da quell’amore incondizionato per la bicicletta che li ha accompagnati in vita.
In un momento terribile come questo, dove l’unica via di uscita ci sembra una bestemmia, sono le parole dolci come il miele di mamma Marianna e papà Lorenzo a confortarci. Ci aggrappiamo a loro, ben sapendo che forse vorrebbero loro aggrapparsi a noi, usando parole dal sapore di un biscotto che ci riconducono al gusto vero della vita e dell’umanità. Pensiamo a loro, ai loro figli morti, a chi li ha uccisi, mettendo a disposizione tutta la nostra voglia di vita per fare in modo che cessino queste morti.
Facciamo prevalere la nostra passione, la nostra determinazione, la nostra voglia di mutare lo stato attuale delle cose, mettendo in sicurezza i nostri figli, con il rigore di chi qualcosa vuole cambiare, senza dimenticare la parola chiave. Una parola sola, così bella e balsamica per i nostri cuori: amore. Amore per la bicicletta. Amore per chi ama questo sport così precario, in perenne equilibro tra una bestemmia e una preghiera, una tragedia e una parola dal sapore di un biscotto che mangiammo da bimbi, pedalando sul nostro cavallo d’acciaio liberato dalla morsa di quelle rotelline che ci trattenevano a terra, prima di spiccare il volo.
Editoriale da tuttoBICI di febbraio
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