Inchiesta di tuttoBICI. Castellano: riscopriamo la meritocrazia

| 01/07/2010 | 12:23
Come in un giuoco dell’oca: è tornato al punto di partenza. È tornato a Sant’Agnello di Sorrento, in uno dei luoghi più belli del mondo, dove il sole è più sole e il mare è da amare. Carmine Castellano ha ripreso un dialogo con la sua terra dopo anni di  girovagare per il mondo, dopo trent’anni di Giro. Lo abbiamo incontrato durante la corsa rosa, la «sua» corsa, per conoscere dalla sua viva voce cosa ne pensa del ciclismo, che futuro ci si prospetta e soprattutto cosa è necessario fare per garantire al nostro beneamato sport un futuro più rosa.
Avvocato, come va?
«Bene, molto bene. A luglio dell’anno scorso sono tornato in pianta stabile con mia moglie Marisa qui a Sorrento. Abbiamo lasciato Busto Arsizio, la Lombardia e siamo tornati dove abbiamo sempre desiderato tornare. Qui abbiamo i nostri parenti, i nostri amici, nostra figlia Milena, il nipotino Sergio di 7 anni. Manca solo Luigi, l’altro mio figlio, che ha fatto una scelta di vita e si è trasferito per lavoro alle Canarie. Ci manca un po’ ma è giusto che ognuno viva la propria vita, come abbiamo fatto io e mia moglie».
Non le manca il ciclismo?
«Quello attivo, quello dentro le viscere delle cose un po’ sì, ma devo dire che per trent’anni mi sono tolto tante belle soddisfazioni. Diciamo che mi sento appagato e adesso sono tornato a guardare quello che io considero lo sport più bello del mondo come un tifoso comune. Davanti alla tivù, sui siti internet come il vostro e ogni tanto sulle strade delle corse come in occasione del Giro d’Italia, che resta sempre uno spettacolo eccezionale. Diciamo che non mi annoio. Di cose da fare ne ho sempre tantissime, una su tutte anche quella di  tenere aggiornato tutto il data-base del museo del Ghisallo».
Per 16 anni è stato alla guida della corsa rosa. Il terzo patron, dopo Cougnet e Torriani, prima di Zomegnan. Nominato direttore operativo nel 1989, ha guidato la corsa fino al 30 maggio 2005. Il Giro che cosa è per lei?
«Da quando, bambino, sentivo le prodezze di Coppi alla radio, era un sogno. Mi ci sono trovato dentro magicamente. Quando ogni mattina aprivo gli occhi mi sentivo un uomo fortunato: facevo quello che avevo sempre sognato di fare».
Come è cominciata la sua avventura al fianco di Vincenzo Torriani?
«Come sapete sono di Sorrento e lì avevo il mio studio legale. Il ciclismo era invece il mio hobby: ero presidente del Velo Sport Sant'Agnello. Quando il Giro arrivò a Sorrento nel 1974, Comune e Regione mi scelsero come responsabile tecnico della tappa. Quel giorno Fuente vinse, staccando Mer­ckx, e andò in rosa. Quella fu una bel­lissima tappa, ben organizzata e curata in ogni minimo particolare: Torriani non esitò a coinvolgermi e a scegliermi come referente per le tappe al Sud. Nel 1989 divenni poi direttore operativo con Torriani, che rappresentava la grandezza del Giro, accanto a me».
Torriani: un autentico genio di creatività…
«Su questo non ci sono dubbi: Vin­cen­zo aveva intuizioni geniali e una passione enorme. Viveva per il Giro. Ha fatto del Giro uno spettacolo unico, più ricco di fantasia anche del Tour».
Ci faccia qualche esempio di creatività?
«L’arrivo in Piazza San Marco a Vene­zia con il ponte di barche sul Canal Gran­de nel 1978. Oppure quello all’Are­na di Verona nel 1984. Era un vulcano. Poi lasciava ai collaboratori la realizzazione dell’idea. Così pensavo: “Un giorno mi dirà che dobbiamo arrivare sulla Luna e toccherà a me trovare il modo di farlo”».
Anche lei ha avuto buone intuizioni…
«Di Torriani ce n’è stato uno, io penso di aver dato un bell’apporto alla causa del Giro. Come in occasione del Cen­tenario dell’Olimpiade, quando il Giro è partito da Atene. Ero andato lì a Capodanno e mi venne l’idea. La confidai a Candido Cannavò, che ne parlò con Samaranch e il progetto decollò. Legammo il Giro alla più grande manifestazione sportiva del mondo».
Anche lei ha scoperto monumenti naturali di assoluto fascino…
«Verissimo. Dopo il Gavia con la neve del 1988, mi fu proposto il Mortirolo. Andai a vederlo. La quota era più bas­sa e la salita verticale. Fu inserito nel 1990 ma, per la frana in Valtellina, lo dovemmo fare all’ incontrario. L’anno dopo ci fu il volo bellissimo di Chioc­cioli. Abbiamo introdotto anche il San Pellegrino in Alpe, lo Zoncolan, il Colle delle Finestre...».
Dove pensa di aver apposto la sua firma?
«Sul Colle delle Finestre. Lo avevo visto nel 1995: era un mulattiera intransitabile. Lo abbiamo fatto nel 2005. Otto chilometri di sterrato. Un atto di coraggio, che fu premiato. Quella pas­sò alla storia come la tappa degli indiani».
L’emozione più grande dal punto di vista sportivo?
«L’estasi me l’ha data Pantani, che però mi diede anche la delusione più grande».
A livello organizzativo, il momento più brutto che ha vissuto?
«La notte di Sanremo nel 2001 con le perquisizioni. Lì il Giro è stato in pericolo. Abbiamo rischiato di mettere la parola fine a quel Giro e non solo a quello».
Crede di esser stato un buon direttore d’orchestra?
«Sì, anche perché ho sempre avuto al mio fianco degli ottimi orchestrali».
Che cosa le ha dato il Giro?
«Mi ha donato la felicità».
Anche quest’anno?
«Il Giro dà sempre felicità».
Eppure il nostro ciclismo, da quasi due anni, sta mostrando i segni della fatica…
«Ho l’impressione che siamo tornati ai limiti toccati alla fine degli anni Ot­tan­ta. I Moser e i Saronni non erano più loro, Moreno Argentin era un ottimo atleta ma non ancora celebrato come lo sarebbe stato negli anni Novanta. Era un momento molto buio e preoccupante, tanto è vero che Vincenzo Scotti, l’allora presidente della Lega, indisse un convegno per vedere di fare squadra, di raccogliere tutte le forze e le idee per cercare un cambio di tendenza. In verità le soluzioni ci arrivarono poco dopo direttamente dalla strada, con le vittorie di Chiappucci, Bugno, Argentin, Giovannetti e compagnia pe­dalante. In questo momento stiamo vi­vendo un difficile momento di cambio generazionale. È una fase molto delicata, che si sta scontrando con una crisi economico-finanziaria globale, e il ciclismo paga più di altri perché è meno strutturato e meno organizzato. Infine, non dimentichiamoci cosa è accaduto negli ultimi dieci anni, soprattutto da noi. Il doping ha creato l’illusione di uno sport di vertice e oggi, dopo anni di scandali e squalifiche, dobbiamo ri­trovare il bandolo della matassa. Siamo alla ricerca di una nuova generazione di corridori. Non è facile. Non sarà per nulla semplice».
L’Italia sta pagando un conto salatissimo: tanti scandali ma anche la consapevolezza che oggi il movimento è più credibile di qualche anno fa…
«Esattamente. Dobbiamo guardare il bicchiere mezzo pieno. Stiamo facendo molto, anche se va fatto di meglio e di più. Il problema, però, è che è sempre più necessario istituire un organo su­per partes che gestisca tutto l’anti­do­ping. È intollerabile che gran parte del tempo e delle risorse vengano spesi per questioni di potere, lotte intestine tra organi di controllo: nazionali, internazionali e centrali».
Un movimento mortificato dal doping, ma anche molto limitato da un ProTour mai nato…
«L’idea del circuito ProTour era ottima. Dopo i tanti scandali del Tour ’98 e Sanremo 2001 si sentiva la necessità di fare qualche cosa che potesse dare un’immagine diversa al ciclismo di alto livello. Il progetto l’aveva presentato in maniera più pratica e vera Jean Marie Leblanc (gran patron del Tour, ndr) con l’appoggio di Patrice Clerc. Io in Ita­lia ne avevo parlato con Corti, Fer­ret­ti, Stanga. Il concetto era quello di da­re dignità e certezze ad un movimento di vertice. Non è tollerabile che il Mi­lan giochi con il Pizzighettone, tut­t’al più ci fa un’amichevole. Oppure ci gioca i turni preliminari di coppa Italia. Il concetto era chiaro: i team più forti, con una garanzia economica e con re­quisiti etici avrebbero dovuto “giocare” tra di loro il campionato. Il concetto era di stampo meritocratico: prima di arrivare all’università, è necessario frequentare con profitto le scuole dell’obbligo e il liceo. Il problema è che poi, dopo mille discussioni e tira e mol­la, la parte economica e promozionale ha preso il sopravvento su quella sportiva».
Questo è stato un grave errore.
«Certo che sì. Però va detto che Ver­bruggen non voleva assolutamente ge­stire tutto lui, ma auspicava ed aveva prospettato l’intenzione di creare un pool di organizzatori (Giro, Tour e Vuel­ta), che fossero garanti di un’at­tività di alto livello. Nella prima bozza di regolamento Pro Tour, che era anche la base del contratto, veniva riconosciuto che i soggetti chiamati a gestire e siglare accordi per i diritti televisivi erano solo e soltanto i proprietari delle corse stesse. Ognuno vendeva le proprie corse a chi voleva e al prezzo mi­gliore. Poi l’Uci avrebbe invece rivenduto i secondi diritti nel mondo. In que­sto modo, pensava Verbruggen, usiamo il grande traino del Tour per rendere appetibile anche tutto il resto. Fu Clerc a dissociarsi per primo, poi tut­ti gli altri andarono a ruota».
In ogni caso, comunque la si giri, l’aspetto sportivo non si intravede neanche un po’.
«Ma l’idea, ribadisco, non era male. Andava perfezionata, corretta, ma non mortificata. Ora quello che vediamo, non è nemmeno più il Pro Tour. È un vero papocchio, senza capo né coda».
Bene, cosa bisognerebbe fare?
«Il problema è che tutti abbiamo troppa fretta, ma a certi errori bisogna ri­me­diare con calma a lucidità. Forse manca un persona con il carisma di Verbruggen. Di sicuro è necessario ri­mettere un po’ d’ordine, soprattutto nella categoria Continental. Squadre professionistiche che portano qualche soldo nelle casse dell’Uci, ma contribuiscono molto poco alla crescita del nostro sport. Anzi, ad oggi, lo dequalificano in maniera evidente. È necessario inserire meccanismi di controllo finanziario ed etico anche qui. Chi non ha i requisiti, se ne torni tra i patrii confini, e a quel punto la gestione sarà nelle mani delle varie Federazioni. In ogni caso auspico un meccanismo più sportivo, più meritocratico: chi tra le Continental è bravo e meritevole, deve essere premiato, e salire di categoria. Stesso discorso tra le Professional. In­somma, va creato un meccanismo sportivo che dia certezza di attività agli sponsor che hanno intenzione di entrare nel nostro mondo. Squinzi ha preso il Sassuolo in promozione. Ora fa la sua bella trafila e se è bravo potrebbe arrivare anche a giocare in serie A o in Champion’s League. Nessuno glielo vieta. Questo concetto deve essere reintrodotto anche nel ciclismo. In un momento difficile come questo è ne­cessario che tutte le componenti tornino a parlare tra di loro la stessa lingua. Io penso che si possa fare».
E la Lega è giusto rianimarla?
«La Lega di che cosa? E soprattutto con chi? Una lega di squadre italiane affiliate all’estero? Prima della Lega è necessario riformare il ciclismo a livello nazionale e internazionale, anche se la Lega potrebbe essere l’inizio di una ricostruzione. Però come si può pensare che Rcs Sport si sieda allo stesso tavolo per parlare con organizzatori che nulla fanno per la  lotta al doping o che non hanno il benché minimo imbarazzo ad invitare tredici squadre Con­tinental senza arte né parte?».
Cosa ne pensa del passaporto biologico?
«È uno di quei punti fermi sui quali bisogna puntare. O i team si adeguano o è bene che vadano a fare altro. Non sarà la perfezione, sarà anche questo un sistema perfettibile, ma va verso una certa direzione. E non si può più tornare indietro».
Cosa pensa del Giro Bio?
«Me l’hanno raccontato, ho visto tanta buona volontà, molto marketing, ma non mi convince pienamente».
E del caso Bani?
«Mi sorge solo una domanda: ma la FCI ha aperto un’inchiesta interna? Mi piacerebbe saperlo».
Favorevole o contrario alle radioline?
«Io dico che non bisogna mai fermare il progresso, però i corridori radiocomandati non mi piacciono».
Il ciclismo italiano non rischia di scomparire?
«Non credo. Di sicuro ci hanno decimato. Non siamo all’estrema unzione, però dobbiamo fare retromarcia: bastano pochi correttivi e la musica cambia radicalmente. Il ciclismo è ormai mondializzato. Solo 20 anni fa era impensabile un australiano campione del mon­do, paesi come la Gran Bretagna così forti e organizzati, per non parlare degli Stati Uniti. Il ciclismo deve proseguire il suo processo di mondializzazione, che è giusto e sacrosanto, ma de­ve fare in modo di valorizzare ancor di più e meglio i propri monumenti. Si può fare, con maggior rigore e passione. Più controlli tra i giovani, maggiore professionalità tra i dirigenti anche delle squadre. Bisogna dare garanzie agli sponsor, come è giusto che loro le diano al sistema ciclismo. Il ciclismo non farà la fine del pugilato perché il nostro mondo si sta mettendo in di­scussione. Ma questo è solo il primo passo. Il secondo è fare qualcosa. Pri­ma che sia tardi».

da tuttoBICI giugno 2010
a firma di Pier Augusto Stagi

Puntate precedenti:
Angelo Zomegnan - n. 5 maggio 2010
Gianluigi Stanga - n. 5 maggio 2010


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COMMENTI
Castellano in chiaro scuro
1 luglio 2010 17:06 roger
Un plauso a Castellano per le sue dichiarazioni e per i bellissimi Giri d'Italia di cui è stato direttore, dopo il mitico Torriani
Tuttavia nella lunga intervista c'è un neo: ha dimenticato di ricordare della soffiata fatta a tutti i direttori sportivi durante il Giro '96 per far sparire tutti i medicinali che erano sulla nave che stava rientrando dalla grecia a Brindisi, dove c'erano i nas pronti a beccare tutti con le mani nel sacco.
Questo mancato blitz, ideato da Ivano Fanini, ha fatto perdere oltre 10 anni di guerra al doping perchè se andava a segno tutto il giro e di conseguenza il ciclismo veniva fermato, perchè trovavano medicine dopanti a tutte le squadre presenti alla gara. Da questo episodio è poi iniziata la vera guerra al doping con lo scandalo Festina, ecc. ecc. ecc. ecc. ecc. fino ad oggi e non è ancora finita se non ci sarà la radiazione per corridori e staff, come predica Fanini da anni.

Al Signor ROGER
2 luglio 2010 05:27 castellano
A chi non ha il coraggio di firmarsi quando lancia accuse infamanti non vorrei neppure rispondere. Comunque l' accusa del Sig. Fanini, che dell' antidoping ha fatto una professione dicendo cose ovvie e spesso parlando a vuoto , non era rivolta nei miei confronti ma contro altri che si sono difesi in sede appropriata ( Tribunale di Milano ) e dove il Fanini non è riuscito , come spesso gli è capitato , di dimostrare la fondatezza delle sue affermazioni

2 luglio 2010 11:20 roger
Avvocato intanto mi scuso se non posso dichiararmi apertamente perchè lavoro ancora nell'ambiente e se lo facessi, temo di perdere il lavoro e sa, ho ancora una famiglia da mantenere quindi non posso permettermelo.
Quello che ho scritto è la pura verità perchè su quella nave che attraversò il mediterraneo dalla grecia a Brindisi c'ero anch'io. Ormai sono passati 15 anni ma capisco che lei continui a negare la verità, essendo stato uno dei responsabili insieme a Lavarda ed a Zomegnan
Il mio commento vuole significare che in quell'episodio si è persa una grande occasione per fermare il ciclismo, con la scoperta di tutti i medicinali che c'erano a bordo delle ammiraglie e dei furgoni di tutte le squadre, compresa quella di Fanini.
E' un rimpianto perchè se nel '96 fosse stato scoperto tutto il giro di medicinali che c'era allora, il sistema doping avrebbe incassato un colpo da ko e forse oggi tanti giovani sarebbero ancora vivi, come Pantani che solo due anni dopo si avviò verso il suo declino a causa del doping. Marco e gli altri campioni avrebbero vinto tutto ugualmente anche senza doping.

...
2 luglio 2010 16:14 pietrogiuliani
Dr Castellano,
Lei sa benissimo che il problema del doping si sarebbe potuto - in parte - risolvere se quel giorno a Brindisi ci fosse davvero stato un blitz dei Nas di Firenze. Lei purtroppo nella sua intervista non è chiaro e soprattutto non può aver dimenticato un fatto così importante.
Se l’idea di Fanini fosse andata in porto in quell’occasione, sarebbe stato un danno incalcolabile per Lei e per il Giro d’Italia che di conseguenza si sarebbe dovuto obbligatoriamente fermare, perché tutti all’unisono sarebbero stati scoperti in possesso di sostanze.
Magari questo ipotetico scenario, se fosse accaduto, avrebbe potuto cambiare le cose e forse oggi tutto sarebbe diverso, rivoluzionato, sicuramente migliore.
Invece poco o niente è cambiato, il sistema va avanti così come fu (se non peggio), distruggendo pian piano tutto ciò che gli si pone contro.
Se ci fossero state più persone insieme a Fanini, senza paura di parlare magari tanti scandali si sarebbero potuti evitare. Purtroppo invece è stato lasciato solo, perché si sa in questo ambiente è soltanto l’omertà a venire sempre premiata (anche se questa è la rovina del mondo del ciclismo). Lei però ora a distanza di anni, visto che sa, potrebbe dire la verità!!!

Nas al Giro del 1996
2 luglio 2010 17:18 bloom
Anche secondo me se fosse andato a buon fine quel blitz, oggi il problema doping non esisterebbe più ed il povero Pantani ed altri ragazzi sarebbero ancora con noi.
Qualcuno ha sulla coscienza tutto questo a Roma sanno molto bene chi è stato a far saltare il blitz

Arena
2 luglio 2010 19:39 marcopolo
Secondo me questa notizia dovrebbe essere spostata nell'arena perchè la vicenda del blitz dei nas fallito al giro del 1996, fu veramente una storia triste per il ciclismo e qualsiasi blogger non può che dare ragione a chi dice che si sono persi anni di guerra al doping.

Per Roger
2 luglio 2010 21:47 castellano
Prendo atto della sua corettezza e se vuole può contattarmi :

ncmcastellano@interfree.it

Castellano

per l'avvocato Castellano
3 luglio 2010 12:08 roger
Avvocato, la ringrazio per la sua considerazione. Tuttavia parlare di questa vicenda contattandoci in separata sede mi sembra quasi come voler nascondere qualcosa al pubblico. E poi tenga conto che lavoro nell'ambiente da 20 anni e quindi sono piuttosto conosciuto anch'io.
Detto questo, preferirei confrontarmi con lei, se lo desidera, su quell'episodio, in questo contesto.

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