
Il 15 marzo scorso, sfidando il cattivo tempo, il popolo della bicicletta è sceso in piazza a Trento per l’iniziativa “Sulla buona strada”, promossa dal Comitato Provinciale della FCI e dal suo presidente Renato Beber, per scuotere l’opinione pubblica, enti, autorità ed istituzioni, sul delicato tema della sicurezza stradale, dalla violenza alla guida alla tutela dei ciclisti e del ciclismo.
Lo ha fatto con una piattaforma di richieste ampiamente condivisibile: maggiori controlli sulla velocità e sul rispetto della distanza di 1,5 metri nel sorpasso dei ciclisti, diffusione delle “bike lane” e cartellonistica pro ciclisti, piani di manutenzione stradale, estensione delle zone 30 km/h nei contesti urbani, la comunicazione e l’incentivazione della mobilità sostenibile, la collaborazione delle scuola guida e delle scuole di ogni ordine e grado per la promozione di progetti di educazione stradale e per la realizzazione di infrastrutture ciclabili sicure per la viabilità ordinaria e la promozione sportiva.
L’iniziativa ha avuto una degna eco sui media locali e qualche sito nazionale, ampiamente meritata per volontà d’azione e contenuti, peccato però che alla doverosa cronaca dell’evento non abbia fatto anche da cornice una forte presa di posizione, con commenti decisi di sostegno e condivisione, anche dall’intero movimento ciclistico, soprattutto di quella parte più rappresentativa e che, volendo, molto può smuovere.
Non che tutti debbano fare le stesse cose e contemporaneamente, ma di Trento occorre capire, ripeto: capire, che quella iniziativa andrebbe ripetuta in tutte le città d’Italia, sotto la spinta della nostra Federazione e di quanti volessero essere della partita, o della “pedalata” se si preferisce.
Vanno bene le rivendicazioni, i convegni, le interviste e tanto altro, ma per determinare davvero quella svolta culturale ritenuta indispensabile ma impossibile in tempi brevi, occorre quantomeno da subito esercitare il massimo della spinta possibile attraverso un vero e proprio concerto di manifestazioni, di presenza nelle strade e nelle piazze, nel tentativo di abbattere gli odiosi paletti dell’indifferenza e degli stereotipi dello status quo.
Abbattere pure l’inconsapevole (?) inerzia presente in molti di noi, pigramente prigionieri dell’idea che i piccoli passi non servano o restino insignificanti rispetto alla consistenza del problema. Quando invece da sempre i cambiamenti, quelli giusti, si sono realizzati in progressione, evitando che utopia e immobilismo si annullino a vicenda. E sempre che si disponga di una classe dirigente che i processi li sappia guidare.
Trento, si è proposta come una iniziativa locale, ma a ben vedere, il suo valore è di ben’altra dimensione: ha fatto capire che volendo si può, ha dato l’esempio dell’essere e del fare, esattamente quanto andrebbe sparso nei più diversi angoli del nostro intero Paese.
Ma Trento ha dato anche un altro segnale importante: quello di non lasciarsi sopraffare dal dolore e dal possibile smarrimento di chi viene direttamente o indirettamente colpito dai lutti della sua passione affettiva e sportiva, come quando Matteo Lorenzi e Sara Piffer hanno perso la vita in allenamento e che giustamente i trentini hanno voluto ricordare, rendendogli omaggio con l’impegno di agire perché non accada mai più. Missione irrinunciabile per chiunque voglia ritenersi protagonista del nostro ciclismo, del suo futuro e del diritto di tutela per chiunque ami la bicicletta.
Ecco allora cadere le braccia, sentirsi spiazzati e pure indignati, quando uno dei massimi campioni del nostro ciclismo, Jonas Vingegaard, intervistato sul tema della sicurezza alla fine della prima tappa dell’ultima Parigi-Nizza, dichiara: «Ho due figli e se un giorno mi chiedessero di correre in bici, io gli direi di no». Così riporta Tuttobiciweb dello scorso 10 marzo.
Capito? Non ha detto «sarei preoccupato», oppure «mi auguro per loro che intanto la situazione migliori», oppure ancora «dovrei dargli molti consigli per la loro tutela». Niente di tutto questo, ha preferito un secco «gli direi di no». Quasi una sentenza, facendo capire che per lui, lui che il ciclismo lo conosce così bene, la sicurezza stradale per i ciclisti è, e sarà, una battaglia definitivamente persa.
Dal mondo sportivo, dirigenti, tecnici, corridori o giornalisti, ci si poteva attendere una levata di scudi a fronte del Vingegaard-pensiero-sicurezza, ma invece, niente. Come un di cui assolutamente trascurabile.
Intendiamoci, un genitore, in quanto tale, ha diritto di pensare e fare ciò che vuole per il bene dei propri figli, non è questo che si vuole negare. Ma se il genitore è anche una delle massime espressioni del suo sport, blandito, osannato ed emulato, che per merito proprio ma anche di chi attraverso la bici lo ha tolto dal mercato del pesce facendolo diventare milionario e soggetto pubblico, può, dopo tutto questo, davvero ritenere opportuno dire che il ciclismo, viste le strade pericolose, è una disciplina che intende bandire ai propri figli?
Il problema della sicurezza è serio, i timori vanno compresi, non lo si può negare, ma se a Vingegaard non si obietta nulla, allora chiediamoci: come è possibile fare proselitismo chiedendo ai genitori di prestare al ciclismo i loro figlioli? Forse che i figli degli altri sono da meno di quelli nostri? Forse è il caso di soppesare meglio le parole e certe dichiarazioni. Per il ciclismo e per sicurezza stradale c’è bisogno del contributo di tutti i nostri migliori testimonial, in particolare dei campioni che la gente ama. Sarebbe un peccato perderne altri dopo quello danese.
Al termine dell’ultima Tirreno-Adriatico, con le belle vittorie di Ganna, Milan, Vendrame e di quella altrettanto stupenda della Balsamo nel Trofeo Binda, il presidente della FCI Cordiano Dagnoni ha dichiarato: «Il mio augurio è che l’esempio di tutti loro e la voglia di emularli rappresenti un potente volano per tutta l’attività di base e avvicini sempre più bambini al nostro stupendo sport». Augurio legittimo e condivisibilissimo. Ma non si trascuri la differenza tra l’esempio di Trento e quello di Vingegaard.