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Gran premio Burro Gigli del 1957, conosciuto anche come la Roma-Velletri, una semiclassica per i dilettanti. Scatti e controscatti, attacchi e contrattacchi, sulla salita di Rocca di Papa la selezione. Davanti rimasero in tre: Arnaldo Pambianco e i due fratelli Trapè, Ardelio e Livio. Pambianco, detto Gabanìn, giacchetta, quella bianca da garzone di una macelleria con cui pedalava per la sua Bertinoro, qui indossava la maglia azzurra della nazionale italiana, e quell’anno si sarebbe laureato campione italiano, e quattro anni più tardi avrebbe conquistato il Giro d’Italia davanti a Jacques Anquetil; Ardelio aveva 38 anni compiuti e Livio proprio quel giorno – il 26 maggio - ne faceva 20, entrambi con la maglia giallorossa di lana della Roma.
I due Trapè si alternavano al comando, Pambianco rimaneva passivo a ruota. Finché, esasperato, Ardelio si rivolse a Giovanni Proietti, commissario tecnico dell’Italia: “Commendatore, che vergogna, un vecchietto e un ragazzino con un azzurro a ruota”. Proietti si sporse dall’ammiraglia e indicò Pambianco: “Ma non vedi, ha la ruota floscia”. Standogli davanti, né Ardelio né Livio se n’erano accorti. Ah sì, si disse Ardelio, allora approfittiamone. E con uno scatto i due Trapè si liberarono dello scomodo compagno di fuga. In volata non ci fu storia: nessuna pietà per il vecchio Ardelio, a prevalere fu la giovinezza di Livio (e forse anche la generosità di Ardelio).
Ardelio Trapè era il grande vecchio dei “puri”. Gli estimatori lo chiamavano “il Gino Bartali dei dilettanti”, gli amici semplicemente Lello. Etrusco e tuscio di Montefiascone, era il primogenito di Tarquinio, autista di pullman – patente numero 16 del suo paese - sulla linea Roma-Montefiascone-Roma lungo la Cassia. Gli altri figli erano due maschi e tre femmine, in ordine di apparizione Elia (accento sulla e), Quinto, Maria, Anna e Livio. Ardelio cominciò a correre nel 1938, a 19 anni, lottando e vincendo contro corridori del valore di Mario Ricci e Alfredo Martini. Fu una vera rivelazione: il primo anno collezionò otto vittorie, fra cui il Campionato delle undici province, e nove secondi posti. “Se mi fossi allenato bene – sospirava – le avrei vinte tutte. Invece andavo alle corse con il mal di gambe”.
Quelli della Lazio avrebbero dovuto iscriverlo alla Compagnia atleti, promisero ma temporeggiarono, e quando fu dichiarata la guerra, Ardelio venne chiamato alle armi e spedito in Africa, in Libia, addetto ai controlli e al ripristino delle linee telefoniche, perciò in prima linea, e pare che in Libia partecipò (e salvò la pelle) nella battaglia di Tobruk. Un giorno, raccontava Ardelio, “arrivò Benito Mussolini in persona, salì su un palchetto e cominciò a concionare. Dalla platea si levò un urlo: ‘Siamo stufi!’. Piombò il gelo. Mussolini, stupito e stizzito per quella protesta, tuonò: ‘Chi è stato?’. ‘Io’, rispose un soldato. ‘Vieni qui’, gli ordinò il Duce. Quello andò, ribadì ‘Siamo stufi’ e spiegò che erano tutti lì ormai da due anni e mezzo, senza licenze, senza la possibilità di rivedere mogli, figli e genitori. Mussolini dette ordine di rimandarci tutti a casa, anche me”. I soldati giunti per rimpiazzarli sarebbero morti nella battaglia di El Alamein.
Non fu facile neanche per lui, Ardelio. Un altro anno, lontano da casa, prima a Ischia, poi in Irpinia, accolto da una famiglia, trattato come uno di loro, mangiare dormire e lavorare, poi finalmente a casa, dove trovò tutto da ricostruire. Altro che corridore, Ardelio si rimboccò le maniche e tornò a lavorare da ciabattino. Finché un po’ le cose in famiglia si sistemarono e un po’ la passione per il ciclismo riesplose. E nel 1949, a 30 anni, ricominciò a correre. Fu “Zi’ Peppe”, Giuseppe Caprio, antico corridore, esperto meccanico e coraggioso telaista di Montefiascone, il suo mentore, a convincerlo a riprendere e a prestargli una bici. E con quella bici Lello, senza allenamento, a Bolsena colse subito un secondo posto alle spalle di Leopoldo Ricci, fratello minore di Mario, che dal 1950 al 1952 avrebbe corso da professionista.
(fine della prima puntata – continua)
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