“Per anni, davanti alle ruote di Coppi e Bartali, ho veduto spuntare e morire le stagioni – scriveva Mario Fossati sulla “Repubblica” -: uscivi dal Vel d’Hiv parigino, dalla Sei Giorni e ti accorgevi che le vecchie acacie del boulevard avevano le gemme”. Vel d’Hiv. Vélodrome d’Hiver. Velodromo d’inverno. La giornata della memoria – ottant’anni fa, oggi, il lager di Auschwitz liberato dai soldati russi – passa anche da qui.
Era stato costruito nel 1909, e inaugurato il 13 febbraio 1910, all’angolo fra boulevard de Grenelle e rue Nélaton, sulle rovine della Salle des Machines, eretta per ospitare una mostra durante l’Expo di Parigi del 1900, e convertita al ciclismo nel 1902 (anello da 333,33 metri e tribune da 20mila spettatori) e demolita per dare più spazio, luce e vista alla Torre Eiffel. La nuova pista, voluta da Henri Desgrange, l’ideatore del Tour de France, misurava 253,16 metri alla corda, ma esattamente 250 sulla linea degli stayer, ed erano le prove dietro motore le più seguite e spettacolari (tribune per 17mila spettatori). All’interno, un’area ideata come pista da ghiaccio, ma che poteva essere adattata ad altri sport, dal pugilato a – in occasione delle Olimpiadi del 1924 – anche scherma, lotta e sollevamento pesi. Tra i frequentatori delle Sei Giorni di Parigi negli anni Venti, Ernest Hemingway: “Ho cominciato molti romanzi sulle corse in bici, ma non ne ho mai scritto uno che fosse così bello come lo sono sia le corse in pista sia sulla strada. Dirò del Vélodrome d’Hiver con la sua fumosa luce del pomeriggio e la pista di legno con la forte pendenza sulle curve e il suono frusciante che le gomme facevano sul legno quando passavano i corridori, lo sforzo e le tattiche quando i corridori si arrampicavano e si lanciavano, ciascuno un tutto con la sua bici, dirò della magia del mezzofondo, del rumore dei motori con i rulli sulla ruota posteriore che gli allenatori guidavano, indossando i loro pesanti caschi protettivi e inclinandosi all’indietro nelle ingombranti tute di cuoio, per riparare i corridori che li seguivano dalla resistenza dell’aria, i corridori con i loro caschi più leggeri chini sui manubri, le gambe a girare l’enorme moltiplica e le piccole ruote anteriori a sfiorare il rullo dietro la macchina che gli forniva un riparo contro la resistenza dell'aria dentro il quale pedalare, e i duelli che erano più eccitanti di qualsiasi corsa di cavalli, lo scoppiettare delle motociclette e i corridori gomito a gomito e ruota a ruota su e giù intorno a velocità pazza finché qualcuno non riusciva più a reggere il ritmo e si staccava e il compatto muro d’aria contro il quale era stato riparato lo colpiva”.
La Seconda guerra mondiale tagliò la Francia in due parti: a nord la Germania nazista, a sud la Repubblica di Vichy. Dal loro accordo, il 12 luglio 1942, a Parigi furono “rastrellati” e arrestati – “la rafle” - 13152 ebrei. Per ciascuno: una coperta, un maglione, un paio di scarpe. Quasi 5mila inviati subito al campo di transito di Drancy, a nord di Parigi, in attesa di essere deportati in Germania o in Polonia. Gli altri, 8160, compresi i bambini, il 16 e il 17 luglio furono ammassati e rinchiusi Vel d’Hiv: 4115 bambini, 2916 donne e 1129 uomini. Qui, sotto un tetto dipinto di blu scuro per nasconderlo ai bombardieri, le condizioni divennero terribili per l’affollamento e il caldo. Le finestre chiuse per sicurezza, dei dieci bagni disponibili cinque erano sigillati, un unico rubinetto dell’acqua. Chi tentava di fuggire, fucilato sul posto. Dopo cinque giorni, i prigionieri furono deportati nei campi di internamento di Drancy, Beaune-la-Rolande e Pthiviers, poi nei campi di sterminio. E sterminati.
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