E’ morto Arrigo Padovan. Aveva 97 anni. Era il più longevo vincitore di tappe – tre - al Giro d’Italia. Un brontosauro.
Antonio Enrico all’anagrafe, Arrigo dal primo tesserino in poi. Padovano di Castelbaldo. Povero in canna: padre cieco, madre tuttofare in casa e a servizio. Scuola il giusto: fino a tredici anni. Poi a lavorare, falsificando il libretto, il minimo era quattordici anni, mese più mese meno cosa vuoi che sia, a Bolzano, prima in officina poi in fabbrica, dodici ore al giorno, e intanto le serali. La guerra scombinò quel poco che Antonio Enrico non ancora Arrigo aveva appena combinato. Ripartì da zero, da Badia Polesine, poi da Verona, sempre in officina.
Però la bici. Una passione. La prima corsa, una sagra paesana, con una bici prestata, apparteneva ad Angelo Menon, che avrebbe corso quattro Giri d’Italia vincendo una tappa. Risultato: settimo. Padovan scommise su sé stesso: macché lavorare, meglio pedalare. La prima bici da corsa, una Mora di Padova, il risultato di una colletta popolare, trentamila lire, prendendoci gusto. La seconda bici da corsa, una Lygie, dell’Atala, cominciando a vincere. Il resto tutto di corsa: nel 1950 dilettante, nel 1951 professionista, il debutto alla Milano-Torino, ritirato per freddo e pioggia, poi la Milano-Sanremo, finita, ventisettesimo a pari merito con altri 42 corridori (altro che photofinish), quindi il Gran premio Industria e Commercio, primo, e finalmente il Giro d’Italia, maglia bianca di primo fra i giovani. Era nato un velocista.
Padovan correva con Bartali e Coppi. “Sta’ attento a quel vecchietto lì – gli diceva Giannetto Cimurri, massaggiatore all’Atala e in nazionale indicando Ginettaccio -. Se arrivi con lui, arrivi bene”. E quando ci riusciva, Antonio Enrico ormai definitivamente Arrigo si metteva alla ruota di quei due, guardava e cerca di imparare. “Tenevo a tutti e due – mi confidò – però Bartali mi era più simpatico. Qualche borraccia a lui l’ho data, a Coppi no”.
Otto Giri d’Italia, quattro Tour de France, una Vuelta. Una quindicina di vittorie. Oltre alle tre tappe al Giro, anche due al Tour e una al Giro di Svizzera, e il Giro della Toscana. “Al Tour piangevo per la fatica, per il caldo, per le salite, per le cotte. Alfredo Binda, che al Tour era il nostro commissario tecnico, mi spiegava: ‘Padovan, quando sei stanco tu, sono stanchi anche gli altri’. Non era una grande consolazione. Però mi dava la forza per tenere duro: con Pierino Baffi eravamo specialisti nell’arrivare un attimo prima del tempo massimo. E mi dava anche la forza per vincere la mia tappa: significava il contratto per l’anno successivo”.
In volata Padovan faceva paura: “La maggiore soddisfazione quando battei Rik Van Looy a Milano, al Vigorelli, nell’ultima tappa del Giro d’Italia 1960 – mi confessò -. Ripartii subito per casa, ma non resistetti alla tentazione e lungo la strada mi fermai per rivedermi in tv”. Dicevano che fosse un bandito: “Forse scomposto, ma non scorretto. La verità è che in volata non puoi lasciar passare nessuno. Mi arrangiavo. Sapevo che il mestiere del corridore dura poco. E sapevo anche che l’importante è vincere”. Parola di brontosauro.