
Bianca, il suo vero nome era Tiziana Bonazzola, il nonno era un garibaldino. Sulla sua Bianchi, color verde acqua sabaudo, durante la Resistenza garantiva i collegamenti fra la periferia e il centro clandestino operativo a Milano, la sua specialità era superare i posti di blocco su vie ritenute strategiche per la presenza di numerose fabbriche militari.
Sandra, il suo vero nome era Onorina Brambilla, anche lei aveva una Bianchi. Fu arrestata con i partigiani della Valsesia, incarcerata a Monza, deportata nel lager di Bolzano, liberata prima di essere inviata ai campi di sterminio, a piedi tornò a Milano e – miracolo – ritrovò la sua bicicletta.
Gabriella, il suo vero nome era Tina Anselmi, sarebbe diventata deputata e poi ministro, la prima donna ministro della nostra Repubblica, Lavoro e Previdenza Sociale. Quando assistette all’impiccagione di alcuni giovani partigiani, entrò a far parte delle staffette partigiane in bicicletta e a forza di andare e tornare consumò i copertoni a tal punto da provocare la fuoriuscita delle camere d’aria.
E staffettista partigiana era anche Augusta Fornasari, lei non aveva un nome da battaglia ma un soprannome da ciclista, la chiamavano “la corridora” perché prima della guerra pedalava forte, doveva consegnare il pesce al babbo pescivendolo, e dopo la guerra avrebbe gareggiato, e vinto, fra l’altro il campionato italiano nel 1948 e la Corsa al Mare (la Bologna-Pesaro) nel 1949.
Bianca, Sandra, Gabriella e la corridora, donne in bicicletta durante la Resistenza, sono fra le protagoniste di “Quando Alfonsina faceva la sartina” (Hever, 272 pagine, 20 euro), un libro in cui Paolo Ghiggio racconta soprattutto le donne piemontesi, di nascita o adozione, per passione o per agonismo, con storie a pedali. Dalle partigiane alle mondine, da Alfonsina Strada alla Dama Bianca, da Elisa Balsamo a Vittoria Bussi, a cominciare da Paola Gianotti che, nella prefazione, sostiene come le donne e la bicicletta sia “un binomio perfetto da sempre, ma oggi più che mai” e spiega che “oggi dove tantissime donne inforcano la loro bicicletta per girare il mondo, portare i figli a scuola, scalare le montagne, viaggiare, lavorare. Ma soprattutto per essere libere. Perché la bicicletta è proprio questo: la libertà”.
Se “Donne in bicicletta” di Antonella Stelitano (Ediciclo) ha un taglio storico, se “Volevo fare la corridora” di Gianluca Alzati su Morena Tartagni (Ediciclo) e “Mary Cressari – la donna dei record” di Paolo Venturini (Compagnia della Stampa Massetti Rodella) sono testimonianze biografiche, così come “Gli anni ruggenti di Alfonsina Strada” di Paolo Facchinetti (Ediciclo), se “Alfonsina e la strada” di Simona Baldelli (Sellerio) ha il fascino del romanzo, “Quando Alfonsina faceva la sartina” è un’indagine giornalistica territoriale dove il taglio storico e le testimonianze biografiche hanno, talvolta, anche il fascino del romanzo. L’occasione giusta per riscoprire l’arte di Margherita Beltramo, moglie del telaista Lino: il suo compito era raggiare le ruote prima che i raggi venissero brasati tra di loro con lo stagno, ma autrice – così pare - anche dell’Azzurro Beltramo, una delicata sfumatura del cielo in una notte di plenilunio, ottenuta mescolando il blu con la polvere d’argento. O l’occasione giusta per valorizzare il talento di un’Anna Maria Succio, campionessa su strada, cross e mountain bike, che ha sempre fatto della lealtà e della trasparenza la sua bandiera. Così si scopre che Gianni Motta non solo la riforniva di tubolari polacchi a prezzi scontati, ma le procurò anche una bici etichettata Gianni Motta. E quando Anna fu grata per il pensiero, ma delusa dal colore nocciola francolino, Motta la fece immediatamente smontare e rimontare su un telaio blu Maserati.
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