Nel 1974 Gibì Baronchelli perse il Giro d’Italia (quella sì, fu una sconfitta) per 12 secondi (primo, neanche a dirlo, Eddy Merckx) dopo 4062 km. Niente. Eppure c’è stato di peggio. Nel 1989 Laurent Fignon perse il Tour de France (quella sì, fu una disfatta) per 8 secondi (primo, Greg LeMond) dopo 4083 km. Meno di niente.
Però. Nel 1946 Fausto Coppi vinse la Milano-Sanremo (quella del radiofonico “in attesa degli altri concorrenti trasmettiamo musica da ballo”) con 14 minuti di vantaggio (secondo, Lucien Teisseire) dopo 293 km. Tutto. Di più. Infinito ed eterno.
Il tempo. Nel ciclismo tempo e spazio sono elementi decisivi. In volata o per distacco, in linea o a cronometro, su strada o in pista. E in fotografia, là dove non è possibile quantificare la differenza. Quel niente che significa tutto. Un’impercettibile disparità che segna il confine fra la storia e l’anonimato, la felicità e la delusione, il successo e il rimpianto, il mito e l’oblio.
Davide Mazzocco ha scritto “Riconquistare il tempo” (People, 138 pagine, 15 euro). Il tempo è denaro, chi ha tempo non aspetti tempo, il tempo è tiranno, il tempo è galantuomo, anche la ruota del tempo, perfino il tempo delle mele, e sempre “il tempo, la corrosione e la decomposizione occupano la prima pagina ma riempiono anche il seguito del romanzo” (“L’autunno del patriarca” di Gabriel Garcia Marquez). Invece Mazzocco cerca di capire e spiegare perché il tempo è determinato da chi ha il potere, e ovviamente il potere è quello economico, fra orologi e algoritmi, fra epistole e email, fra Covid e post-Covid. E che cosa cambia. E come cambia.
Anche la bicicletta ha una sua dimensione temporale. Non tanto nel ciclismo, questo aspetto è il più facile da comprendere e valutare, ma nella vita di tutti i giorni, in particolare nel capitolo intitolato “La tecnologia non è la soluzione”. Mazzocco cita un testo di oltre 50 anni fa, “Elogio della bicicletta”, in cui Ivan Illich sottolineava come “gli studi permettessero di ricavare dati statistici sul rapporto tempo/chilometro, ma trascurassero i costi occulti del trasporto ovverossia ‘i frammenti di esistenza rosicchiati dal traffico, lo spazio divorato dai veicoli, la moltiplicazione di spostamenti resa necessaria dalla presenza dei veicoli, il tempo che va perso, direttamente o indirettamente, nella locomozione’”. Ecco le esperienze dei limiti di velocità urbana a 30 all’ora, ecco il progetto di tutto disponibile e raggiungibile in 5 minuti a piedi, ecco il mito della velocità (e non della bontà o della sanità) perfino nel cibo.
Ho conosciuto Mazzocco sulle strade del ciclismo. Lui ha scritto (e scrive) tanto di ciclismo. Anche libri, come “Storia del ciclismo” (Bradipolibri, del 2010) e “Grimpeur” (Bradipolibri, del 2012). E l’ho ritrovato sulle strade della bicicletta, lo scorso ottobre, al Festival del ciclista lento, dove il tempo è elemento decisivo nella natura del raduno, degli incontri, degli appuntamenti, dei partecipanti. A Ferrara Mazzocco ha parlato di cronofagia, cioè fame di tempo; di regressione del sonno, in base al principio più-sveglio-più-consumi; di raiders e di cicloviaggiatori; di visioni tribali. E insomma, predicava lentezza: “Possiamo attraversare il tempo che ci è dato seguendo quel ritmo interiore che è inscritto nella nostra biologia molto più di quanto la società non voglia farci credere”. Il ritmo interiore è un ritmo inferiore nel tempo, ma superiore nella qualità: “Il tempo non è un lusso. Il tempo è un diritto”.
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