Era brillante. Era spiritoso. Era allegro. Era bello. Era corridore. Era. Perché da due giorni Crescenzo D’Amore non c’è più. Se n’è andato da velocista, non a due ma a quattro ruote, e c’è ancora da capire perché.
Il ciclismo è un andirivieni e un viavai, un pronti-via e una linea orizzontale bianca così temporanea che mezzora più tardi non esiste più, come se quella corsa, quel vialone, quel traguardo siamo stati solo un’illusione, un abbaglio, un miraggio.
Nomi e cognomi, spesso soprannomi. Sguardi, sorrisi e smorfie. Abbronzature. Domande e risposte, incontri e interviste, pedalate rotonde e parole quadrate, oppure il contrario, parole rotonde e pedalate quadrate: ci si vede, ci si studia, ci si specchia, ci si riflette, ci si riconosce. A volte nasce un’amicizia, perfino fra giornalisti e corridori, più spesso un ricordo.
Stavolta lo ritrovo nella rete, quella di Internet. Un’intervista a Crescenzo D’Amore, pubblicata il 24 ottobre 2010. Per “La Gazzetta dello Sport”. Ottobre, novembre e dicembre erano i mesi in cui i corridori staccavano la spina. Riposavano, recuperavano, si restituivano alla vita — la vita normale, non quella speciale da corridori — di tutti i giorni. Chi andava in vacanza e chi rimaneva a casa, chi andava ancora in bici e chi andava già in bici, chi sognava e chi progettava. Corridori d’inverno: tutti a casa. Una buona occasione per sentirli, con più tranquillità, con più profondità. Più dei campioni, mi interessavano gli altri. Come Crescenzo: napoletano di Pomigliano, campione del mondo juniores nel 1997. Poteva essere un Cipollini, poteva valere un Freire, poteva competere con Petacchi. Poteva. Invece un po’ non ha potuto, un po’ non ha voluto. Perché il ciclismo è poter volere, è voler potere, e solo se si può e si vuole, si vola.
La storia D’Amore ricominciava dopo tre anni di vuoto, di assenza, di mancanza. Lo chiamai, mi rispose. Così.
D’Amore, che cos’è successo?
"Era il 2007, correvo per la Lauretana. Programma di corse incerto, poi una caduta in Francia, e mi è passata la voglia. Mi dicevo: il ciclismo non è tutto nella vita, è una parentesi, la parentesi si è chiusa, e ricomincio a vivere".
Che cos’ha fatto?
"Prima il rappresentante per parrucchieri, poi il rappresentante per una società di prodotti industriali detergenza e monouso. Andava anche abbastanza bene. Ma ci sono stati delle complicazioni".
Quali?
"Con la mia ragazza. E’ saltato il matrimonio. Ed è saltato anche il lavoro. Tutto era legato a lei. Per un periodo sono rimasto senza fare niente. Ed è lì che mi è tornata la voglia della bicicletta".
Così?
"Ho fatto l’istruttore di spinning in una palestra ad Aversa. E lo faccio ancora. E’ divertente. Un’attività aerobica indoor, su bici fisse, a un ritmo musicale da seguire. Si suda. Ci si scarica corpo e mente. Un antidepressivo. Per tutti, dai bambini in su. Per tenersi in forma e per liberarsi la testa".
Poi?
"Un giorno ero a una manifestazione in onore di Gino Bartali. Incontro un vecchio amico, giornalista e scrittore, anzi medico: Gian Paolo Porreca. Glielo confido: vorrei ripartire. E lui: ti darò una mano. Mi fa incontrare Gianni Savio. Mi dice che come corridore gli piacevo, che con me vuole fare una scommessa, e m’ingaggia. Nel 2011 correrò per l’Androni".
E quando cominciò a correre?
"Vent’anni fa. Era il 1991. E anche quella volta fu per una scommessa - sa, noi napoletani siamo fatti così - con mio padre. Io avevo 12 anni e già volevo il motorino. Te lo prendo se vinci una corsa in bici, mi disse. Era un mercoledì, e la corsa era la domenica. Partecipai e vinsi. Mio padre fu di parola: e anche se avevo 12 anni e non 14 - sa, noi napoletani siamo fatti così -, mi comprò il ’Sì’ della Piaggio".
Poi campione del mondo. "A San Sebastian, in Spagna. Un gruppo di 35 corridori, volata, primo. Sempre stato velocista, ma qualche salitella la supero anch’io".
Le qualità di un velocista?
"Saper rischiare di perdere per vincere. Non sono più le volate di prima, con quei treni che se ti metti dentro non ne esci più. Adesso c’è mischia fino all’ultimo chilometro. Ci vogliono gambe e scaltrezza".
Corridore nel sud: una stranezza?
"Quando dico che di lavoro faccio il ciclista, dicono: ah, aggiusti le biciclette. Gli rispondo: no, ci corro proprio. E spiego: sai, quelli che fanno il Giro d’Italia. Da queste parti ci sono professionisti come D’Andrea e Muto, ma io preferisco stare con il gruppo dei miei amici, quelli classici, più che amatori sono proprio compagni di vita, insomma amici-amici. Come Rocco Travaglino, che ha un negozio di telefonia. Ma tante volte vado via da solo".
E dove?
"Sto alla periferia nord di Napoli. Così vado nell’Avellinese e nel Beneventano. A me andare in bici piace assai: non solo per allenarmi, ma anche per osservare. Sono un amante del turismo in bici, esplorare, scoprire, fino a perdermi".
Si è veramente perso?
"Veramente. Poi però punti di riferimento un corridore li trova sempre. A cominciare dai cartelli stradali".
E che cosa c’è da scoprire?
"Il Monte Taburno. Vigneti immensi. E colori da tavolozza di pittore. S’immagini: grandi canyon e quei colori. Una meraviglia".
D’Amore, è dura la vita?
"Ma è dura dappertutto. Che su a Milano è sempre ’happy hour’? La vita è dura indipendentemente da Napoli o Milano. E’ dura per il lavoro che non c’è, per l’immondizia che ce n’è troppa, per i problemi che sono tanti e per le situazioni che sono pesanti. Ma dipende da come ci si pone: io guardo il lato positivo delle cose".
Cioè?
"Vede, a questo mondo ci sarà sempre il povero-povero e il ricco-ricco. E poi ci sono tutti quelli in mezzo. E quelli in mezzo non si accontentano mai: se vanno a piedi desiderano la Mini, se hanno la Mini desiderano la Ferrari, e così non si finisce più".
Lei che cosa desidera?
"Io? Io niente. E sono contento".
E il ciclismo? "Lavorerò per la squadra, se capiterà un’occasione cercherò di sfruttarla, tirerò per Ferrari e Vicioso - come sono? sono simpatici? ma i corridori sono tutti simpatici -, posso fare anche da chioccia. Dal ciclismo ero uscito con odio, ci rientro con amore".
Chiusi il pezzo così: “Proprio una storia D’Amore”.