Non si è mai preso le prime pagine dei giornali, ma 16 anni di professionismo non si fanno per caso. Oggi, al Giro del Veneto, Fabio Sabatini chiuderà una carriera vissuta al servizio di molti dei velocisti più forti dell’ultimo ventennio. Pur non avendo mai vinto da pro, l’atleta toscano è universalmente riconosciuto come uno dei migliori pesci-pilota del gruppo dei tempi recenti. Alle luci della ribalta ha preferito le vittorie dei compagni.
Quando hai cominciato a meditare su questa decisione?
«Da dopo il Giro d'Italia. Avevo capito di non riuscire più ad essere la miglior versione di me stesso, complice un ciclismo che in questi ultimi anni è cambiato radicalmente. Sono realista e l'avevo sempre detto, quando non riuscirò più a tirare una volata come si deve mi farò da parte. E così è stato».
Il bilancio dell’ultimo biennio in Cofidis?
«Sono stati due anni difficili. L'anno scorso non lo conto nemmeno, perché dopo lo stop per la pandemia non ho fatto il Tour de France per scelta tecnica della squadra e poi, quando stavo preparando il Giro alla Tirreno-Adriatico, mi sono preso il covid che ha messo fine alla mia stagione. E secondo me il covid qualche strascico lo lascia, perché da quel momento non mi sono più sentito al massimo».
Viviani però è sembrato in crescita nelle ultime uscite.
«Pian piano si sta ritrovando, e credo che il prossimo anno ripartirà forte. Ormai non è più un segreto, si sa che andrà alla Ineos Grenadiers, un ambiente che conosce e, anche se forse non avrà un vero e proprio treno a disposizione, credo che troverà l'ambiente giusto per tornare a vincere con continuità».
Quando abbiamo visto il Sabatini più forte?
«Sicuramente gli anni della QuickStep. Anche perché eravamo un treno perfetto, mi lasciavano puntualmente ai 400 mt dall'arrivo e potevo tirare al meglio la volata al mio capitano. Gli anni con Marcel Kittel e poi con Elia Viviani credo siano stati quelli in cui sono riuscito ad esprimermi al meglio. Con Kittel ero proprio l'ultimo uomo, mentre con Elia ogni tanto ero il penultimo per scelta tattica, visto che c'era anche Michael Morkov che è tutt'ora uno dei migliori».
Il capitano a cui sei più legato?
«Sicuramente Viviani. L'intesa che ho avuto con lui non l'ho avuta con nessuno».
Il più talentuoso invece?
«Direi Kittel. Ogni tanto non mi stava nemmeno a ruota, gli bastava che allungassi il gruppo ai 250 mt, poi lui partiva da dietro e bruciava tutti».
Hai lavorato anche con Cavendish…
«Sì, il primo anno in Etixx. Con lui però ero il terz'ultimo, perché aveva il fedelissimo Mark Renshaw. Quella stagione lui andò al Tour e io al Giro con Tom Boonen, poi sapevamo già che avrebbe lasciato la squadra quindi non ci ho lavorato poi molto. Fuori dalle gare però siamo grandi amici, perché ha la casa a Quarrata, vicino a casa mia, e capita spesso di incontrarci».
E sei partito da Alessandro Petacchi.
«Sì, io ho imparato a far parte di un treno grazie a lui, a Daniele Bennati, a Marco Velo, ad Alberto Ongarato. Con questi mentori era come passare dalla prima elementare alla quinta superiore in un baleno».
La vittoria di un tuo capitano che ricordi con più piacere?
«Ce ne sono tante per fortuna. Però direi il Tour de France 2017, quando abbiamo vinto 5 tappe con Kittel, e poi il Giro 2018, con le 4 tappe di Viviani e la Maglia Ciclamino. Se non parliamo di volate, invece, ricordo con piacere la vittoria di Ivan Basso al Giro 2010. Un grande successo con un grande capitano».
In Liquigas per un periodo facevi le volate in prima persona, ma non sei riuscito a sbloccarti. Rimpianti?
«Nel biennio 2009 e 2010 ho avuto le chances per provare a dire la mia. Però, non sono mai andato oltre al secondo o terzo posto. Alla Vuelta persi una tappa per un centimetro. Ho realizzato piuttosto rapidamente di non essere un vincente, ma di avere delle abilità per far vincere gli altri. Questo mi ha permesso di fare 16 anni tra i professionisti, e ho gioito di più tirando le volate di quanto non avrei fatto provando a fare il velocista puro, vincendo magari una o due corse di secondo piano all'anno. Ho tanti difetti, ma nella mia carriera ho sempre saputo mettere da parte il mio orgoglio e sacrificarmi per un compagno più forte di me. Zero vittorie in carriera o una credo non faccia differenza. Certo, non ho mai alzato le braccia al cielo per una mia vittoria, ma le ho alzate tantissime volte per i miei compagni e posso assicurare che la gioia è altrettanta. Non ho assolutamente nessun rimpianto».
Sei passato attraverso varie ere del ciclismo, quanto è cambiato questo sport?
«Rispetto a quando ho cominciato io, il ciclismo è cambiato come dal giorno alla notte. La differenza più grande sta nell'approccio che hanno i giovani. Non c'è più gavetta, si bruciano le tappe. Quando sono passato io i primi mesi e anni li facevi a disposizione dei più esperti. Andavi a prendere le borracce, tiravi il gruppo fin dai primi chilometri, anche se magari avevi le gambe per stare davanti nel finale. Dovevi fare esperienza e penso fosse anche giusto così. Questa cosa ora non esiste più, anche perché è cambiata proprio la mentalità delle squadre. Di corridori d'esperienza ormai ce ne sono pochi, perché le squadre non prendono più i 35enni, preferiscono andare a pescare gli junior. E in gara si vede, perché si parte a mille e si finisce a mille, non ci sono i senatori in grado di gestire il gruppo. Anche in frazioni potenzialmente adatte ai velocisti, ormai non sai quello che può succedere. E capisco benissimo che sia un ciclismo più spettacolare e che la gente si diverta di più, ma posso assicurare che non è proprio lo stesso per chi è in gruppo, soprattutto della vecchia generazione».
E quindi cosa dobbiamo aspettarci?
«Secondo me si sta tornando al ciclismo degli anni 70' e '80, quando a 32 anni cominciava il tramonto di un corridore. Da questi discorsi va ovviamente tolto Valverde, perché come lui ce n'è uno su un milione. Ma lo si può vedere nella generazione del '90. Aru si è ritirato, corridori come Quintana, Pinot, Bardet non sono più al top... ».
Anche il tuo vecchio amico Sagan non sembra più il fuoriclasse di una volta.
«Peter era un fenomeno al livello di quelli che ci sono adesso. Come lui ne nascono ogni mille anni. In Liquigas ero con lui quando ha esordito al Tour Down Under, ero il velocista e lui doveva lavorare per me, ma mi sono accorto subito che avrei dovuto lavorare io per lui. Aveva 19 anni, e adesso che ne ha 31 non è più lo stesso di qualche anno fa. E non lo dico io, lo dice la strada. Insomma, sono curioso di vedere se qualche corridore della nuova leva arriverà a fare 16 anni da professionista come me».
Progetti per il post carriera?
«Ho un po' di cose in ballo, mi sono iscritto ai corsi per diventare direttore sportivo, non escludo di poter salire in ammiraglia. Poi essendo toscano, della zona di Montecatini Terme e Siena, il futuro sono i bike tour con i turisti, qualcosa stiamo già tirando su. Sicuramente continuerò a lavorare nel mondo della bicicletta, mi son già reso conto di non poterne proprio fare a meno. Non mi prenderò l'anno sabbatico perché non è da me, ma magari fino a Natale me ne resto tranquillo. Però voglio godermi la famiglia, i miei due bambini, ne ho uno di 20 mesi che ogni volta che parto piange. Ora non piangerà più».