BALLERINI. «VOGLIO QUEL PEZZO DI PAVE'»

PROFESSIONISTI | 26/03/2021 | 07:50
di Giulia De Maio

Non è uno che ama le scommesse né ha mai fatto pazzie, ma per realizzare il suo più grande sogno sportivo è disposto a lavorare sodo e a farci una promessa. Da­vide Ballerini ci ha regalato i primi successi italiani in Europa del 2021 ed è tra gli uomini a cui ci affidiamo in vista delle classiche di primavera. Il suo successo alla Omloop Het Nieuwsblad ci dà più di un motivo per sperare in grande per le corse del Nord.


Nella sua cameretta, fin da quando era bambino, ha sempre avuto un unico poster: Fran­co Ballerini in trionfo alla Roubaix. Il ventiseienne canturino non ha nessun legame di parentela con l’indimenticabile CT ma ha sempre avuto la sua stessa passione per le corse del Nord. Dalla prima volta che ha attaccato le scarpette ai pedali ambiva a far parte del team numero uno per le classiche, al quarto anno nella massima categoria ci è riuscito. Dopo due stagioni alla An­­droni Giocattoli e una all’Astana, un anno fa è sbarcato alla Deceuninck Quick Step, ha cambiato metodo di la­voro e (nonostante la stagione stravolta dalla pandemia) ha dimostrato di poter cambiare passo. Nel frattempo ha comprato casa, salutato la Brianza comasca, dove finora aveva vissuto con mamma Silvana e papà Fabio, per trovare il suo posto nel mondo a Vacallo, nel Canton Ticino. Nella sua nuova di­mora, sempre nella zona notte, c’è quel poster guardando il quale è cresciuto fino a diventare uomo e che ha voluto portare con sé. Oltre a una bandiera delle Fiandre, per ora riposta nel cassetto del comodino, quello in cui si custodiscono i sogni più preziosi.


Nel 2020 sei sbarcato nella squadra che hai sempre desiderato, poi però hai dovuto affrontare un anno da incubo.
«Come tutti: il Covid ha stravolto la vita di chiunque. Sono stato costretto a rinunciare alle classiche che per la pri­ma volta nella storia sono state disputate in concomitanza con il Giro d’I­ta­lia. La corsa rosa è andata bene per la squadra, Joao Almeida ha indossato per 15 giorni la maglia rosa, io gli sono stato vicino e ho dimostrato che posso giocarmi qualcosa di importante in qualche tappa. È stato complicato restare concentrato nel periodo del lock­down e mantenere la continuità di rendimento, ma mi ritengo molto fortunato. Avendo la residenza in Svizzera ho dovuto subire meno restrizioni ri­spetto ai miei connazionali e sono riuscito ad allenarmi su strada. Quando è stata pubblicata la bozza del nuovo ca­lendario mi sono rimesso sotto e sono tornato subito ad alzare le braccia al cielo al Tour de Pologne, corsa nella quale dopo l’incidente di Fabio (il compagno Jakobsen, ndr) ho provato emozioni forti e contrastanti».

Con il Wolfpack hai fatto il salto di qualità che speravi?
«Mi sono riscoperto veloce. Per uno sprint non avrei mai scommesso su di me, ma dall’anno scorso il preparatore greco Vasilis Anastopoulos che mi ha assegnato la squadra, mi ha convinto a concentrarmi di più sul mio spunto. Abbiamo instaurato fin da subito un ottimo feeling, i risultati dimostrano che stiamo lavorando bene. Ha avuto ragione lui, l’ho capito dopo i primi successi che mi hanno dato ulteriore fiducia nei miei mezzi. Lo scorso inverno ho lavorato ancora di più e in modo specifico per le volate».

Raccontaci.
«Ho svolto ripetute mai fatte prima, di un minuto su strappi che simulano lo sforzo che bisogna affrontare nelle classiche. Lavori estranei per me, che fanno crescere. Sto cercando di conoscermi sempre più. I dati si rivelano utili sia in allenamento che in corsa, durante una corsa a tappe di tre settimane quando trascorri la giornata nel gruppetto devi stare su certi wattaggi per salvare le gambe, ma cerco di ascoltarmi e do molta importanza alle sensazioni».

Non saranno state male, visto che hai vinto già all’esordio...
«A inizio stagione la condizione è sempre un’incognita. Io ero consapevole di avere un buon colpo di pedale dai training camp, ma finchè non ti confronti con i rivali non sai mai com’è la forma. Vincere le prime due tappe e la classifica a punti del Tour de la Provence è stata una bellissima sorpresa. Il mio allenatore ci credeva molto, io seppur mi fidi prendo sempre un po’ con le pinze le previsioni sulla forma, mi pia­ce testarmi sul campo gara. Ci speravo, dopo una settimana e mezzo a uscire in bici sia la mattina che al pomeriggio, la tanta fatica accumulata nelle gambe e nella testa è stata ripagata».

Chi ben comincia è a metà dell’opera.
«Così si dice. Alla Omloop Het Nieuwsblad ho conquistato la mia prima grande corsa belga. La squadra ha creduto in me, Julian mi diceva “è il tuo giorno, puoi vincere, hai la gamba giusta”, e quando il campione del mondo ti di­ce così non puoi sbagliare. Abbiamo dato spettacolo e io ho ottenuto un’altra iniezione di fiducia in vista dei prossimi appuntamenti. Ora ho in programma tutte le classiche del nord, dal Fiandre alla Gand, da Harelbeke alla Roubaix».

Quanto è cresciuto quel ragazzino che aveva il poster di Ballerini in camera?
«Tengo i piedi per terra, cerco di lavorare al meglio pensando ad una gara per volta, non mi sono mai fatto chissà quali viaggi mentali, ma guardandomi indietro sono veramente contento. Il mio primo obiettivo era passare professionista, il secondo arrivare in questa squadra, il terzo è conquistare la Rou­baix. Anche se ho imparato ad ascoltare Vasilis che è convinto che un giorno ci arriverò, io quel giorno lo immagino lavorando quotidianamente e sfruttando ogni occasione per crescere. Il tem­po a disposizione non è tanto e passa veloce. Mi è dispiaciuto non potermi mettere alla prova al Nord nel 2020, un anno di esperienza è andato e so che ogni stagione è indispensabile per im­parare e arrivare un domani a finalizzare».

Ora che vivi da solo, cosa hai appeso alle pareti di casa?
«La foto della mia vittoria in maglia azzurra ai Giochi Europei di Minsk 2019 che mi è stata regalata dalla mia amica Martina in una bella cornice. Il poster di Franco Ballerini che ho sempre avuto nella mia cameretta di bambino me lo sono portato nella casa nuo­va. Continuo ad andare a letto con il “santino” e un pensiero fisso».

Come te la cavi con le faccende domestiche?
«Sono sempre stato disordinato, quindi in casa generalmente c’è casino. Non riesco a sistemare periodicamente tutte le cose come bisognerebbe fare e nel giorno di riposo non voglio fare nulla, quindi finisco sul divano a giocare a Call of Duty con la play-station. Nel mio caos mi trovo bene e al momento sto bene da solo. I miei genitori non abitano distanti, quando posso vado a trovarli e a prendere Yuma, il nostro lupo cecoslovacco di 10 anni, per una passeggiata. Purtroppo non ho potuto portarlo con me, se lo lasciassi da solo in appartamento durante le ore in cui mi alleno farebbe un disastro, peggio di quello che è opera mia (ride, ndr)».

Hai un messaggio da mandare ai giovani che stanno vivendo con difficoltà questo periodo tra scuola a distanza, poco sport e limitazioni alla socialità? Tu pri­ma del ciclismo hai praticato per sei anni nuoto per salvamento, le piscine restano chiuse.
«Li invito a tenere duro, a cercare di ritagliarsi del tempo e dello spazio per coltivare le proprie passioni, la cosa più importante da ragazzi è divertirsi e questa pandemia tra distanze, limitazioni e socialità ridotta sta creando dan­ni seri. La bicicletta permette di stare all’aria aperta e questo è un gran vantaggio rispetto ad altre discipline che ora come ora è difficile praticare. Molte squadre hanno chiuso, tante ga­re sono saltate, le aziende sono in crisi e senza sponsor il ciclismo va a finire. Rivolgo un appello alle aziende italiane: siamo tra le nazioni più forti al mondo, ma non abbiamo più neanche una squadra World Tour. Io sono cresciuto guardando la maglia a cubetti colorati della Mapei a braccia alzate, sarebbe fantastico che i giovani di oggi potessero fare lo stesso».

Tu come stai vivendo questa nuova realtà?
«Ho perso il conto dei tamponi a cui mi sono sottoposto. Sono costantemente in una bolla e viaggiare non è facile perché i voli diretti praticamente non esistono più. Cerchiamo di stare attenti, di indossare sempre la mascherina, di cambiarla spesso, di igienizzare le mani, per tutelare noi stessi e gli al­tri. Non si può fare altro, ahimè è così. Dispiace non avere il pubblico vicino, è bellissimo scendere dal pullman e trovare i tifosi che ti chiedono un autografo o una foto. Magari ti fa perdere un filo di concentrazione e, se sei uno dei big, essere assediato dai fans può essere stressante, ma sono certo che tutti non vediamo l’ora di risentire nel­le orecchie quelle urla che ti danno una spinta in più quando serve».

Com’è nato il tuo amore per il Nord?
«Mi hanno sempre detto che per le caratteristiche che ho sarei stato predestinato a quelle corse e ne ho avuto conferma quando in maglia Astana ho esordito alla Omloop 2019. Come se mi fossi ritrovato a gareggiare in uno stadio a cielo aperto, il calore della gente mi ha conquistato. Per corridori come me, adatti a questo tipo di prove, è ogni volta come disputare un mondiale».

Che rapporto hai con il freddo?
«Lo sopporto bene. La temperatura e le condizioni climatiche fanno la differenza, rendono la sfida ancora più ostica e selettiva. E quando il gioco si fa duro...».

Pavè, côte o sterrato?
«Pavè in primis, sterrato e côte li metto al secondo posto a pari merito. La mtb la uso spesso per la preparazione, nei giorni d’inverno più rigidi permette di mantenere la temperatura corporea più alta. Bisogna avere la giusta attenzione, ci si mette un attimo a farsi male, ma vale lo stesso discorso anche su strada, dove mi alleno spesso in compagnia di Nizzolo, Pelucchi e Ca­taldo».

Se ti propongo birra e patatine?
«Perché no? Sono il classico peccato di gola che un atleta deve evitare, non fanno bene alla dieta, ma una volta ogni tanto fanno bene all’umore».

La musica house?
«La ascolto 24 ore su 24, è un altro tassello in più che mi lega ai Paesi del nord, lì è super popolare».

Cos’altro ha quella parte d’Europa che ti affascina?
«Il rispetto verso i ciclisti. Ricordo che la prima volta che ci andai con la Na­zionale Under 23 gli automobilisti si arrabbiavano perché non pedalavamo nelle tantissime piste ciclabili a noi de­dicate. Arrivando dall’Italia non eravamo abituati, anzi ci stupivamo quando si fermavano per farci passare. Bel­lissimo! Da noi purtroppo non c’è questa cultura».

La bici in Belgio è religione.
«Il calore del pubblico è fantastico, ovunque ti giri c’è gente con la maglia Quick Step, per me è davvero un orgoglio presentarmi al via con la squadra faro al Nord. Alla partenza della mia prima (e finora unica) Roubaix, mentre stavo rilasciando un’intervista, un tifoso mi ha posato una bandiera fiamminga sulle spalle provocandomi la pelle d’oca per l’emozione. Negli ultimi due mesi l’ho cercata e alla fine ne ho comprate tre. Una l’ho appesa in salotto, un’altra è a casa dei miei genitori».

E la terza?
«Per ora è in un cassetto, ma la darò ai miei genitori che fa­ranno tutto il possibile per venirmi a incitare dal vivo. Non è facile ma si stanno organizzando, il volo per Roubaix mio padre lo aveva già prenotato l’anno scorso, ora che è pure in pensione non si perderà una mia corsa neanche cascasse il mondo».

Hai imparato qualche parola di fiammingo?
«So dire buongiorno, buonasera, de­stra e sinistra, ovviamente qualche pa­ro­lac­cia, sono le prime che si imparano. Più sto in mezzo ai miei compagni e allo staff del team più capisco anche quando parlano tra di loro. I gesti e le espressioni del viso aiutano, mi piacerebbe poterlo parlare bene ma è una lingua difficile».

Com’è correre con il campione del mon­do?
«Un’emozione fantastica, ancor di più perché Alaphilippe è impressionante. Julian è un uomo squadra e dopo Imo­la 2020 non è cambiato, è sempre di­spo­nibile, se vede che sei giù di morale trova la battuta giusta per tirarti su, ha un consiglio o una parola per chiunque. Non è da tutti, soprattutto quando raggiungi certi livelli».

E con un giovane extraterrestre come Eve­ne­poel come ti trovi?
«Benissimo. Come per Julian, è stimolante averlo come compagno di squadra. Nonostante sia più piccolo di me, an­che da lui imparo. Remco è un grandissimo esempio, ha un carisma im­pressionante ed è determinato al 110 per cento».

Torniamo al Nord e parliamo di donne: bionde e occhi azzurri?
«Preferisco le more, per gli occhi invece è indifferente. Non è la prima cosa che guardo, ma non pensate male. La cosa più importante per me è l’aspetto interiore, per chi come il sottoscritto è sempre in giro per lavoro è importante avere a fianco una persona che capisca il mio mestiere, essere fidanzata con un ciclista comporta tanti sacrifici. La persona perfetta non esiste ma spero in futuro di trovare quella adatta a me. La caratteristica imprescindibile è la trasparenza, poi bisogna venirsi incontro e convivere con quello che il destino ci riserva».

Rientriamo in Italia: segui la politica?
«No, per niente. Non la concepisco, non l’ho mai seguita e non la seguirò mai. È brutto da dire, bisognerebbe interessarsi, capire come funziona, ma non ho proprio voglia, sono sfiduciato da chi ci governa».

Saprai però che la FCI ha un nuovo presidente: cosa chiedi a Cordiano Da­gno­ni?
«Di dare la priorità al ciclismo giovanile. Dobbiamo investire sulla base, an­dare incontro alle squadre, trovare sponsor per mantenere e far rifiorire un vivaio che ha molte potenzialità, ma è in evidente sofferenza. Io, se sono ar­ri­vato fin qua lo devo, oltre che alla mia famiglia, ad Augusto Savoldi, mio primo diesse ma anche meccanico e tutto fare alla Capiaghese, squadra che non esiste più, così come tante altre realtà che sono state costrette a chiudere per mancanza di soldi, volontari, costi ec­ces­sivi e gare sempre più lontane».

Quale trofeo vorresti portarti a casa al termine di questa stagione?
«Un mattoncino quadrato, di porfido, molto pesante. Avete presente?».

Benissimo. Se ci riesci...?
«Prometto di tenere in ordine la casa così da valorizzare il nuovo soprammobile».

E, al solo pensarci, gli scappa da ridere.

cover story da tuttoBICI di marzo

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