Il 29 maggio 2016, 50 anni dopo la vittoria al Giro d’Italia, Gianni Motta organizzò una festa per raccontarsi e farsi raccontare. Corridori, direttori sportivi, giornalisti. E storie, avventure, retroscena. Molto era rimasto nei miei appunti. Eccolo qua.
LA FAMIGLIA “Mio padre era contrario, mia madre pure. Che cosa vuoi correre – mi dicevano - con il traffico che c’è in giro. C’era da capirli: quando gli chiesi i soldi per una bici, e la prima bici era da turismo, loro ci mettevano i sacrifici, io il piacere”.
IL BANDITELLO “Lo ero come tutti i ragazzini di allora. Venivamo dalla guerra, eravamo più liberi, i genitori ci lasciavano fare, e noi facevamo qualche marachella. E per fortuna le abbiamo fatte”.
GLI AMICI “Come il Carluccio e l’Emanuele, due fratelli che abitavano a 100 metri da me, che di cognome facevano Motta, ma che non erano miei parenti. Carluccio aveva quattro anni più di me e la testa più sulle spalle. Quando capii che per fare il corridore avrei dovuto fare una vita più regolare, cercai qualcuno che mi desse una mano, e il Carluccio era l’ideale, era perfino un ragazzo di chiesa. Le prime corse andavo in bici, correvo e tornavo in bici. Quando partenza e arrivo erano più lontani, mettevo la bici in spalla e il Carluccio mi accompagnava in moto”.
LE CORSE “Ricordo più quelle da allievo e dilettante che non quelle da professionista. Da allievo partecipavo al Giro della provincia di Como, cinque tappe in cinque domeniche, organizzato da un giornale, l’Ordine di Como. Ma c’era una domenica di riposo. Quella domenica combinai con il Carluccio di andare in moto sul Lago di Iseo a mangiare i pesciolini. Andata con la bici sulle spalle e ritorno in bici, tanto per muovere le gambe. Strada facendo, a Seriate scoprimmo che c’era una corsa, ci fermammo, entrai in un oratorio e chiesi di iscrivermi. Non so perché, non mi accettarono. Pazienza, c’erano sempre i pesciolini. Senonché, uscendo, incontrai un giornalista dell’Eco di Bergamo. Ci pensò lui a farmi iscrivere. Pronti-via, si andava a Lovere e si tornava indietro. Su una salitella vicino a Lovere rimasi davanti con un certo Fustinoni, finché a 20 dall’arrivo mi accorsi che Fustinoni stava cedendo, allora cominciai a spingerlo per farlo arrivare almeno secondo, ma mi fu impedito. Protestai, ma niente da fare. Dietro di me c’era il Carluccio in moto a farmi da ammiraglia, finché anche a lui ordinarono di allontanarsi. Protestai ancora, ma niente da fare. Proseguii e vinsi”.
LA SQUALIFICA “Dilettante, venni squalificato perché non correvo per diventare azzurro. Ma ero gracilino. E feci bene. Vittorio Seghezzi, il mio direttore sportivo, era d’accordo”.
LA MERAVIGLIA “Quella volta che feci 70 chilometri di riscaldamento prima di una partenza in discesa, e la partenza venne ritardata perché io ero ancora in giro a riscaldarmi”.
IL CAPOLAVORO “La Tre Valli Varesine del 1970 davanti a Eddy Merckx. Ci misi tutta la mia volontà per rimanergli attaccato, poi lui forò al momento sbagliato, quando io avevo i crampi anche nei capelli”.
GLI AVVERSARI “Quello che mi faceva più paura? Né Gimondi né Merckx: ero io. In squadra con Gimondi non si andò mai d’accordo. D’istinto sarei andato via, ma per gratitudine rimasi. Merckx, se per tre volte gli dici che è un campione, diventa rosso. Merckx: pensate l’impossibile, l’impossibile era vero, lui lo ha fatto”.
I GREGARI “Giorgio Albani a Giacomo Fornoni diceva così: ‘Se forano Motta o Dancelli, aspetti. Se fori tu, ti arrangi da solo’”.
LO ZIO “I vecchi campioni, non so bene perché, mi volevano bene. Come Baldini, come Nencini, che si affiancava e mi parlava. Più come uno zio che non come un padre. Mi sentivo protetto”.
L’INCIDENTE “Nel 1966 vinsi il Giro d’Italia, nel 1967 il Giro di Svizzera. Ma nel 1965 al Giro di Romandia ero stato investito da una Fiat 1100, con cinque a bordo, di cui uno era Piero Ratti della ‘Gazzetta dello Sport’, che mi passò sopra. Mi ferii alla gamba sinistra, mi ruppi il ginocchio, saltai il Giro, tornai al Tour, impreparato, ma qualcosa non andava, all’interno dell’arteria, lo scoprirono quattro anni dopo e venni operato. E poi si diceva che fossi un malato immaginario”.
LA BATOSTA “Tour de France 1965, tappa del Ventoux. Julio Jimenez scattava e io gli rispondevo, lui scattava e io rispondevo, lui scattava e io rispondevo, finché lui scattò e io saltai. Imparai la lezione: bisognava lasciarlo per poi riprenderlo. E da quella batosta nacque la vittoria al Giro d’Italia 1966”.
LA PUBBLICITA’ “Nel 1969 venni ingaggiato dalla Salvarani non tanto per vincere, ma per farle pubblicità. E prendevo più soldi di quando andavo forte”.
I PREMI “Quando si vinceva alla Molteni, davano in giro i salamini. Quando si vinceva alla Salvarani, avevano tutti le cucine. Però alla Salvarani la sera noi prendevamo la minestrina, alla Molteni anche il dolce”.
LA VECCHIAIA “Scoprire quelle salite che prima non c’erano, o scoprirle sempre più dure. Come se ogni volta fosse possibile togliere un dente davanti e aggiungerlo dietro”.
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