È da cinquant’anni che si porta dietro quella riservatezza che lo protegge come un’armatura dal mondo. Pacato e riflessivo, Ivan Gotti è davvero il manifesto dell’antipersonaggio che ha sempre preferito l’essere all’apparire. Il fare alle parole. «La bicicletta alle gare…», ci dice con quel suo tono schietto da persona della Valle che preferisce il silenzio, fin quando non gli si porge una domanda perché, se lo solleciti, Ivan risponde sempre, con franchezza e senza tanti giri di parole, a costo di apparire ruvido e insensibile, cosa che per noi che lo conosciamo sin da ragazzino, non è affatto.
Cinquant’anni oggi, vissuti con assoluta riservatezza.
«Sono fatto così, non mi sono mai piaciute le luci della ribalta. Amo la semplicità e il piacere di stare con le persone che mi vogliono bene. Per mia fortuna ne ho tante e di questo, ne sono felice: è la vera ricchezza di un uomo. Il mio sentimento? Sono sereno e in pace con me stesso».
Cosa fa oggi Ivan Gotti, vincitore di due Giri d’Italia e per due giorni anche maglia gialla al Tour?
«Vivo a San Pellegrino con Elisabetta e il nostro Michele, che oggi ha 9 anni. Io lavoro come agente di zona per la Ferrero. Ormai sono più di quindici anni che giro la Bergamasca per questa grande azienda e sono felice di quello che faccio».
Dicono anche che tu sia molto bravo.
«Questo non sta a me dirlo, ma anche nel lavoro c’è solo un modo per essere apprezzati: portare a casa i risultati. Diciamo che io qualcosa a casa porto».
Da ciclista hai portato a casa due Giri d’Italia, uno nel 1999, quello di Madonna di Campiglio e di Marco Pantani.
«È un Giro che ho dovuto sudare per vincerlo, perché sul Mortirolo non mi ha regalato niente nessuno. Paolo (Salvoldelli , ndr) mi ha fatto sputare l’anima. In ogni caso è un Giro che sento mio a metà. Come si fa a considerare quella vittoria un successo pieno? Io proprio non ci riesco, neanche a distanza di tempo. Io ero già felice di arrivare secondo alle spalle di un fuoriclasse come Marco. Sai cosa ti dico?... Sarei stato più felice di arrivare secondo dietro al Pirata, che primo in quel modo. Un secondo posto alle spalle di Marco sarebbe stato di gran lunga più bello. Arrivo a dirti che avrebbe avuto più valore quel secondo posto, della maglia rosa che ho vinto con pieno merito nel ’97».
Ma dici davvero?
«Certo. Io mi sono sempre considerato un ottimo scalatore. Sono passato professionista con grandi aspettative perché nelle categorie giovanili avevo ottenuto grandi risultati. So solo io, però, la fatica che ho dovuto fare per emergere. Marco l’ho avuto sempre tra i pedali. È sempre stato il più bravo, un fenomeno: nessuno come lui. E nella vita ho sempre imparato a riconoscere i meriti degli altri, e soprattutto ad accettare i miei limiti. E io ne avevo un po’».
Cosa ti resta di Marco?
«Tutto, ma solo le cose belle. Io voglio parlare solo di quelle. Ho nel cellulare tantissime foto di corse che ci ritraggono insieme. Ne ho una del 1989, corsa per dilettanti: Sondrio-Livigno, io davanti e lui dietro sul passo del Foscagno. Io in maglia Verynet, lui con tutti quei capelli ricci che esplodono fuori dal caschetto in maglia Rinascita. Ma le immagini più belle le ho nel cuore».
Il punto più alto?
«Forse nel 1995: due giorni in maglia gialla. Per me una grande emozione».
Felice di quello che hai ottenuto?
«Ho dato tutto. Quello che ho raccolto è quello che meritavo. Io sono soddisfatto di quello che ho fatto. Non ho rimpianti».
Segui il ciclismo?
«Poco, seguo più l’Atalanta. Vado in bicicletta con mio figlio, ma con la bici a pedalata assistita. Dalle mie parti è solo salita. Vado nei rifugi e anche con la e-bike la fatica la si fa eccome, ma per uno che non ha allenamento e ci va una volta alla settimana va benissimo».
Cosa pensi del ciclismo di oggi?
«È molto professionale. L’asticella si è alzata, e anche di molto».
Non ti manca l’ambiente?
«Ho la fortuna di avere degli amici come Giovanni Bettineschi, un grande industriale bergamasco, che quando riesce a portare il Giro d’Italia o altre corse di livello nelle nostre zone mi coinvolge, ma lo faccio a piccole dosi. Poi ci sono persone che vedo più di altre. Il mio ex team manager Gianluigi Stanga, ex colleghi come Paolo Lanfranchi che lavora in Ferrero con me, e poi Ermanno Brignoli, Eddy Mazzoleni, Paolo Savoldelli, oppure Riccardo Faverio o Dario Acquaroli. Oltre a loro ci metto anche Giacomo Carminati, compagno di tante gite in bici».
Il ciclismo italiano fa fatica…
«È l’Italia che fa fatica, non solo il ciclismo italiano. Io sono in giro tutto il giorno e non vedo più ragazzini in bicicletta. Di corse ce ne sono sempre di meno e sempre meno anche i volontari che si mettono in testa di allestire corse, squadre e via elencando».
Le foto di Pantani nel cellulare, e le due maglie rosa con le coppe “senza fine” del Giro dove le tieni?
«In mansarda. Quelle sono cose personali e neanche le più importanti. Sai cosa direi oggi a Marco se potessi parlargli?».
Cosa gli diresti?
«Marco, la vita è molto più di una corsa in bicicletta».