Sfrecciano, sgommano, svirgolano. Incalzano, impennano, infilano. S’insinuano, s’inseriscono, s’incuneano. E portano, trasportano, consegnano.
Si scrive rider, si pronuncia raider, si legge schiavi. In bicicletta. Le definizioni “ciclofattorini” e “lavoratori in bicicletta” sanno di politicamente corretto (e di giuridicamente ignorato). Una volta erano i garzoni, i fattorini, i pony. Indossavano camici o grembiuli bianchi. In romagnolo gabbana, e Gabanein era il soprannome di uno di questi garzoni, Arnaldo Pambianco, che avrebbe vinto un Giro d’Italia. Un altro era Dino Zandegù, il fornaio era suo padre, la prima sfornata riservata alla famiglia, padre madre Dino e le sue sette sorelle, dalla seconda si consegnava a domicilio, e l’incaricato era il futuro vincitore di un Giro delle Fiandre. Perfino Coppi, si direbbe oggi, cominciò da rider, da raider, da schiavo.
Ma allora era meno pericoloso. Forse più rispetto, certo meno traffico. Forse più lentezza, certo meno frenesia. Forse più umanità, certo meno menefreghismo. Adesso è un modo per campare, ma anche per morire, è un modo per tirare avanti, ma anche per essere tirati sotto, è un modo accettato, ma non tutelato, non protetto, non difeso. Senza regole. Senza assicurazioni. Senza futuro. Una piccola guerra, 24 ore al giorno, dove si conosce già chi saranno gli sconfitti: loro, anche se magari in quelle 24 ore sono riusciti a salvare la pelle.
“Quo vadis rider”, dove vai ciclofattorino: sulla sua “lotta umana e sindacale” è stato composto un libro curato da tre avvocati, Maria Matilde Bidetti, Carlo de Marchis Gomez e Sergio Vacirca (più i contributi di Tania Scacchetti, Paola Zampini, Matteo Maria Zuppi, Franco La Cecla, Marianne Jaeglé, Luciano Del Castillo, Marco Marrone, Claudio Pellegrini, Silvia Rainone, Roberto Rotunno, Antonio Prisco, Michele De Rose, Michele Forlivesi e Patrizia Pallara), edito da Futura nel 2022 (236 pagine, 18 euro), e che merita di essere acquistato anche per la sola introduzione, un vero e proprio saggio, di Filippo Ceccarelli.