“Imerio” è tornato fra di noi. Non lui, Massignan. Ma il libro su di lui, scritto nel 2012 da Marco Ballestracci e riedito da AlVento/Mulatero (208 pagine, 19 euro). E’, come nel sottotitolo, “un romanzo di dannate fatiche”. Neanche tanto romanzato. E Ballestracci – stessa latitudine, stesso accento, stessi umori di Massignan – ne ha creato un gioiello. Quella che pubblichiamo è la prima parte della mia prefazione. Domani la seconda e ultima. Grazie
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C’è una foto che la dice lunga. In bianco e nero. Lo ritrae da dietro. Lui, maglia e braghe della Legnano, bici pure, dorsale numero 100, in piedi sui pedali, chino sul manubrio, proiettato in avanti, come se la prima corsa non fosse contro gli altri e neanche contro sé stesso, ma proprio contro la bicicletta, come se volesse precederla anche se di poco o pochissimo. La salita è evidente: lo si capisce dagli spettatori, che puntano i piedi per non precipitare a valle, lo si intuisce dagli altri spettatori - uno striscione avverte: 500 metri alla vetta – ai bordi di uno o due tornanti più in alto, lo si evince dall’immane sforzo cui lui è sottoposto, spingendo un rapporto duro e impossibile, come se lui dovesse issare in cima alla salita non il telaio di una bici ma la mole di un trattore. Il Muro di Sormano, una follia verticale che Vincenzo Torriani aveva inserito nel percorso del Giro di Lombardia nel 1960, perché i corridori non dimenticassero d’inverno – la stagione del riposo - quanto fosse faticoso pedalare. Quel corridore, il primo che appariva lassù, era forse l’unico che quella parete chilometrica se la fece con la sola forza delle proprie gambe (e braccia, e testa, e cuore, e polmoni, e volontà, e sacrificio, e dolore, e certamente anche con qualche inevitabile ma-chi-me-l’ha-fatto-fare). Gli altri, dunque dal secondo all’ultimo, chi se la sarebbe fatta a piedi, spingendo la bici, e chi se la sarebbe fatto in bici, ma spinto, e chi si sarebbe attaccato, possibilmente a macchine o moto o furgoni (ché attaccarsi al tram significa dover rinunciare).
Il corridore della foto è fermo. Questo accade in tutte le fotografie, è vero, dove certi istanti diventano eterni. Ma in questa foto il corridore è fermo tra una pedalata e l’altra, tra lo spazio e il tempo, tra il trionfo e l’abbandono, tra la gloria e l’oblio, tra l’ascesa e l’ascensione. Finché la forza di volontà, solo quella, collega la testa alle gambe, il cuore ai polpacci, il dorsale al destino, e promuove un’altra pedalata.
Lui, il corridore, quel corridore, era Imerio Massignan. Aveva un perfetto cognome da scalatore, di quelli che finiscono su un gran premio della montagna, senza annacquarsi concludendo in una discesa e urbanizzarsi finendo con una vocale. Aveva anche un originale nome da scalatore (nella foto, quella in bianco e nera che la dice lunga, uno sportivo brandisce un cartello su cui ha scritto, in maiuscolo, FORZA IMERIO), che secondo ricerche etimologiche potrebbe richiamare quello di un dio greco e significare desiderio ardente. Aveva l’ideale fisico da scalatore, magro, asciutto, tutto nervi e volontà, tanto da guadagnarsi il soprannome di Gambasecca, anche per via di una gamba non in linea con l’altra. Aveva un fatale certificato di nascita: 2 gennaio (la data della morte di Fausto Coppi) del 1937 (23 anni prima). Aveva un profetico luogo di nascita, Valmarana, frazione di Altavilla Vicentina, ai piedi di salite di cui stabiliva, uscita dopo uscita, ufficiosi e insuperabili record. Aveva perfino – e lo avrebbe scoperto strada facendo – un destino da scalatore, che deve lottare contro tutti e soprattutto contro sé stesso, che deve allearsi con la propria solitudine e competere con la propria ombra, che deve rassegnarsi ad amare quelle pendenze che allettano la sua virtù ma che minacciano la sua salute, che deve confidare in tornanti e drittoni quando tirano su ma che deve sfidarli quando precipitano giù. I veri scalatori – istintivi, naturali, come lui, Gaul, Bahamontes, i colombiani… -, proprio per la loro origine caprina, non potevano essere spericolati discesisti. Ma lui, mi giurano gli specialisti, se la cavava egregiamente anche prendendo la salita al contrario, cioè dall’alto verso il basso.
(fine della prima parte – continua)