Nasce in una famiglia appassionata di ciclismo. Comincia a pedalare prima che a camminare. La sua vita è scandita dalle corse, la Milano-Sanremo inaugura la primavera, il Giro d’Italia ha già sapori e colori dell’estate, il Tour de France è il caldo meridiano di luglio, il Lombardia si tinge della malinconia dell’autunno. A sei anni è già a un pronti-via, e anche al traguardo, senza neppure saper bene che cosa fare fra la bandierina della partenza e lo striscione dell’arrivo. Poi la trafila delle giovanili, la luce del piazzamento, il gusto del podio, l’ebbrezza della vittoria. Da Under e infine da professionista, le uscite che diventano allenamenti, le corse che si trasformano in sfide, ma anche in doveri, in lotte, ma anche in dubbi, in sogni, ma anche in incubi.
Non si dovrebbe fare sport, qualsiasi sport, anche il ciclismo, se un sogno si trasforma in incubo. C’è qualcosa di malato, di marcio, di deviato. Succede anche quando si investe troppo, di testa e di corpo, di aspettative e di ricompense. L’importante è partecipare, vero, ma l’importante è anche vincere, altrimenti tutto quel disciplinarsi e impegnarsi non ha poi così tanto senso. Quando si entra in campo o si sale in bici bisogna sempre dare tutto e sperare che quel tutto sia un poco pochino pochissimo più del tutto di quello degli avversari. E sapere che dieci o cinquanta anni dopo, quando racconterai una tua storia ai figli o ai nipoti, quando ti ritroverai con i compagni o proprio gli avversari, il punteggio sarà soltanto un insignificante dettaglio statistico.
Ma lì, al pronti-via, seppure in surplace, si corre il rischio di una fragilità, di una debolezza, di un peccato. Cedere alla tentazione di una scorciatoia. Chimica. Difficile che la prima volta sia anche l’unica volta. Segretezza, giustificazioni, ricatti, un senso di immunità e un altro addirittura di onnipotenza, finché tutto diventa vortice, tra dipendenza e complicità, impossibile tirarsene fuori, è un tunnel buio, cupo, spento, ma è lì dentro che si pedala. Finché non si sa, finché qualcosa succederà, finché si potrà.
“Pedali e catene”, come suggerito sulla copertina, è una storia di doping. L’ha scritta Alessio Clinker Mischianti e l’ha pubblicata Ultra (136 pagine, 14 euro). Una storia vera, anzi, tante storie vere, così dice l’autore, che ne costruiscono una finta, o meglio, romanzata, almeno nei nomi, nelle circostanze, nella trama. Una storia nuda e cruda (“Se non metti dentro qualcosa rischi di saltare, invece di andar forte ti finisci”), genitori assatanati (“La vera corsa non si svolge tra i bambini, ma appartiene agli adulti. Che hanno altre motivazioni e finiscono quasi sempre per starsi sul cazzo”), mal di gambe e crisi di panico (“Il mondo era immobile e io stavo annegando su quella montagna”), incidenti e infortuni (“Un sapore di sangue e cemento mi attraversava la bocca”, “Vedevo tutto, ma non provavo niente”), medici (“Dai, togliti la maglietta. Questa si fa sottocute”) e gambe (“Una cartografia di vene gonfie pulsanti sotto pelle, pedalavano come fossero in apnea, con i volti rilassati in assenza di dolore”), nuove certezze e nuovi obiettivi (“Mi importava solo di tornare al più presto in bici, di non perdere nemmeno una molecola del mio stato di forma costruito in tutti quei mesi, in tutti quegli anni di gare e allenamenti”).
Era necessario scrivere “Pedali e catene”? Il doping lo si combatte anche scrivendo. Chi lo ha fatto con atti di accusa (Sandro Donati con “Lo sport del doping”, Gruppo Abele, e “I signori del doping”, Rizzoli), chi confessando (Erwann Mentheor con “Il mio doping”, Baldini Castoldi Dalai), chi raccontando (Danilo Di Luca con “Bestie da vittoria”, Piemme), chi storicizzando (Sergio Giuntini con “Lo sport imbroglione”, Ediciclo), chi intervistando (Paolo Viberti con “Conconi – le mie verità sul doping”, Bradipolibri). Meglio scriverne e denunciare, che tacere e rassegnarsi, o fingere che il problema non sia mai esistito, o che non esista, o che non esista più. Meglio scriverne. “Pedali e catene” non getta in cattiva luce, ma anzi, fa luce. A gettare in cattiva luce è proprio chi sospira, chi sbuffa, chi allarga le braccia, chi dice che però anche gli altri sport, chi dice che però tutti gli sport, chi aggiunge a cominciare dal calcio, chi dice che tanto vale liberare tutto. Per combattere il doping non sono necessari solo norme, controlli e punizioni, è indispensabile anche la cultura. Libri, film, incontri, ricerche, verità. Parlarne. E non dimenticare. I pedali (anche i pedali, così come i palloni e gli sci) possono liberarsi dalle catene. I panni sporchi è meglio lavarli in pubblico.
PS Il ciclismo ha pagato, sta ancora pagando, a caro prezzo, le tentazioni del doping. Ma c’è anche la gioia, lo stupore, l’avventura, i valori, le sorprese, le imprese, lo spirito, insomma, la bellezza del ciclismo. Io, nel mio piccolissimo, ci provo. Può farlo anche Mischianti. Magari il prossimo libro.
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