Pedalando, da Pesaro ad Ancona. Pedalando, su ciclovie e un po’ anche statale. Pedalando, sotto il sole africadriatico di luglio. Pedalando, con il gruppo di Pedalando – movimento di resistenza al Parkinson. Pedalando, con Fabiano Fontanelli.
Cinquantanove anni. Gli occhi, quelli di sempre. Il resto, un po’ meno. L’età, si sa, che non risparmia, e la malattia, e anche quella si sa, che non perdona. Ma quando Fontanelli sale sui pedali, si capisce che appartiene a un’altra categoria, corridori si nasce e si diventa, e nati o diventati, lo si è sempre, comunque e dovunque.
La bicicletta: “Un’eredità familiare, mio padre correva, fin fra i dilettanti”. Il ciclismo: “Un patrimonio territoriale, il primo eroe Pipaza Minardi, poi Ginazza Cavalcanti, poi Davide Cassani”. L’agonismo: “Una garetta fra amici, sette o otto, senza dorsali, senza striscioni, senza premi, arrivai primo e da solo. Avevo la bici di mio padre, a fatica sui pedali, la sella tirata giù al massimo”. I consigli: “I vecchi si raccomandavano: niente piscina e niente pugnette. Passi per la piscina, costava anche. Ma le pugnette, come si fa?, avevamo tredici-quattordici anni”.
Da Sant’Urbano, nel Padovano, a Genova, passando per Ferrara, Bologna, Pesaro, Ancona, Perugia e Firenze. Un po’ in bici e un po’ in pullmino. Una quindicina, grandi e piccoli, malati e non, Giorgio Gaber canterebbe “far finta di essere sani”, tutti. Qua e là, incontri e appuntamenti, foto e saluti, brindisi e racconti. Perché non c’è nulla da nascondere, nulla di cui vergognarsi, anzi, se si tratta di forza e coraggio, trasparenza e integrazione, allora meglio esibirlo con orgoglio. Fontanelli è l’orgoglio di questo gruppo.
Il soprannome: “Marco Pantani, il Pirata; Roberto Conti, Brontolo; Stefano Garzelli, Giovane; Massimo Podenzana, Vecchio; Marco Velo, Beautiful… Io, Mortadella. Perché fra tutti gli affettati, preferivo la mortadella. C’era un salumaio, sul Muraglione, ci si fermava a mangiare, e io sempre pane e mortadella. E’ dura da digerire, mi rimproveravano. Ma con tutti i chilometri che facciamo, mi difendevo. Piuttosto, se c’era una cosa che non digerivo, erano le salite”. La salita più dura? “Il Colle dell’Agnello. Non finisce mai. E quando sembra che sia finita, al lago, mancano ancora sette chilometri e sono quelli più duri”. Altre salite? “La cascata del Toce, Giro d’Italia 2003. Finii fra le ammiraglie. Beppe Martinelli mi chiese se ero lì per prendere e portare da mangiare ai compagni. No, gli risposi, sono qui perché mi sono staccato. Arrivai al traguardo piangendo. Non ci fu bisogno che nessuno mi dicesse che era giunta l’ora di smettere. Me l’ero già detto io”. E adesso? “I giorni del Tour de France in Italia, con Conti, abbiamo scalato prima il Fauniera e poi il Sampeyre. Sul Fauniera siamo arrivati insieme, sul Sampeyre gli ho dato più di venti minuti. Io a lui. Pensa com’era ridotto”.
La bici è terapeutica. Fa bene alle gambe e al cuore, ai polmoni e all’anima. Irrobustisce le gambe e libera la testa, scarica i nervi e ricarica di energie. Aiuta anche i malati di Parkinson. E si è scoperto che più faticano, più sciolgono collo e spalle, recuperano armonia e leggerezza, ritrovano fiducia e confidenza. La bici dona (e ridona) la felicità.
Il professionismo: “La prima vittoria in una tappa del Giro di Calabria. Forai. L’ammiraglia di Bruno Reverberi non c’era. Fu Franco Cribiori a passarmi la ruota. In volata battei Giuseppe Calcaterra. Sai a quale squadra apparteneva Calcaterra? A quella di Cribiori”. I direttori sportivi: “Da Reverberi a Ferretti, da Savio a Boifava… Andavo d’accordo con tutti, mai litigato con nessuno. Mi dicevano quello che dovevo fare, e di solito lo facevo”. Le regole: “Quelle di Ferretti erano tre: non tirare mai, mangia, e si salvi chi può”.
Si salvi chi può: già. Pedalando, ci proviamo.