Maglia bianca con strisce verde e rossa e dorsale 165: Mirco Maestri, ma tutti lo chiamano Paperino, perché – parole sue – “da giovane ero un po’ sfigatello” o forse anche perché “c’era un pupazzo di gomma che volevo semre portare con me”. Anni 32, altezza 1,85, peso – a occhio – in lotta con, perché a differenza di alti e magri, piccoli e nervosi, visi scavati, toraci asciutti, polpacci sgrassati, Paperino è quasi un paperone, non a caso va matto per le fiorentine, quelle in carne e osso, cottura media. Nascita Guastalla, residenza Suzzara, accento lombardemiliano. Gregario di indole e dimensioni, di cognome (i gregari insegnano a vivere) e soprattutto soprannome (di gregari fortunati alla Gastone non se ne ricordano molti, neanche pochi, forse nessuno).
Mirco Maestri è uno di quei corridori per cui si fa il tifo anche quando smettono di correre e ricominciano a camminare. Come Fornaciari, per dirne uno. Come Da Dalto, per dirne un altro. Nono anno di professionismo, tantissimi, se si pensa che la maggior parte, dopo un paio, sono costretti a declassarsi da corridori a ciclisti e campare non andando in bici ma aggiustandole. Lui, cinque vittorie, tappa e generale del non impossibile Giro di Rodi, tappa a cronometro del Giro di Cina I (se intero e non a puntate o a zone, il Giro di Cina durerebbe un anno), Gran premio Slovenian Istria e Gran premio Slovenia che – considerata la provenienza di Pogacar – acquistano sempre più importanza. E in più, per dirla tutta, le classifiche a punti del Giro di Rodi e della Tirreno-Adriatico e quella della montagna del Giro di Turchia. In Italia, zero. Difficile eessere profeti in patria e difficile essere anche maestri. Ben più valorose, a mio modesto giudizio, le vittorie nelle classifiche dedicate al maggior numero di chilometri in fuga. Perché lui parte spesso, pazienza se non arriva (quasi) mai. All’aria, al vento, allo sbaraglio. “Voglio entrare, se non nell’albo d’oro, almeno in quello dei ricordi”. Ci è riuscito anche in quello dei cuori.
Oggi Maestri è stato il protagonista della tappa. Come compagno di fuga aveva Julian Alaphilippe. Conoscendo la sua onestà, non ci sarà stato un solo istante in cui Paperino abbia osato solo immaginarsi vincitore della tappa. Eppure ha tirato come se fosse strasicuro di potersi imporre nella volata a due. Eppure ha dato cambi al francese già campione del mondo, conquistatore in classiche, specialista in muri, fuoriclasse in giornate di gloria. Eppure ha dato lustro al ciclismo, al suo spirito, alla sua bellezza.
L’impresa di Maestri si è conclusa a 11 chilometri e mezzo dall’arrivo, dopo 145 di fuga e con 47 secondi vantaggio sugli inseguitori. Piantato, piombato, fermo su una parete marchigiana, sembrava spingere non una bici, ma un trattore. Divorato e inghiottito, ha trovato ancora forze e orgoglio per giungere nono a un minuto e mezzo da Alaphilippe vincente ed esultante, ricevere l’applauso degli spettatori e soprattutto l’abbraccio dello stesso Alaphilippe sorridente e riconoscente. “Il giorno più bello – ha sillabato Paperino – della mia vita”. E con questo ha impartito, a tutti, una bella lezione: per essere felici non è indispensabile vincere.