Era base per altezza, era fibre più bianche che rosse, era potenza con pericolo di esplosività. Era dinamite muscolare e muscoli dinamitardi. Era un motore umano da Formula 1. Era un motore che esasperava le carrozzerie, tant’è che era la disperazione di meccanici e perfino telaisti: quando spingeva sui pedali, in quel preciso istante in cui nasce la volata, era capace di sfondare le gabbiette, scardinare i pedali, piegare le pedivelle e spaccare i tubi. E quando lo raccontava, si illuminava.
Si è spento Sante Gaiardoni, che per gli amici era il Gianni. Due medaglie d’oro alle Olimpiadi di Roma, da gladiatore, nel chilometro da fermo (e chissà come meccanici e perfino telaisti sospirarono di sollievo quando la bicicletta resistette alla prima pedalata, e anche alla seconda, e poi alla terza) e nella velocità, campione italiano e mondiale, primatista italiano e mondiale, l’elenco quasi completo è sulle enciclopedie di carta e di computer, il resto è in quell’archivio della memoria che è il cuore della gente della “parrocchia”, come spiegava pazientemente il giornalista e testimone dell’epoca Mario Fossati, quella del ciclismo su pista, a metà fra arte e circo, fra commedia e cabaret, le listelle come un palcoscenico.
Nato a Villafranca di Verona nel 1939, aveva 21 anni quando vinse la sua prima corsa all’oro, morto a Milano stanotte, aveva 84 anni e gli ultimi mesi sono stati difficili, annebbiati, fragili, non alla sua altezza, non all’altezza della sua forza. Prima stradista, poi pistard. La prima vittoria in salita, poi le uniche salite sarebbero diventate soltanto quei tre-quattro metri verticali delle pareti paraboliche delle piste per lanciarsi nelle volate. Un mondo, il suo, ovale, quello dei velodromi, anelli in cui si respirava canfora e olio, in cui si indossavano caschi in strisce di pelle e vestaglie di seta, pantaloncini con fondelli in pelle di daino e maglie che reclamizzavano aspirapolveri e televisori, rigatoni e birre. Un mondo, il suo, fatto di dichiarazioni di guerra e atti di coraggio, di furbizie e segreti, di scommesse e vendette, di brividi e scosse, fatto anche di donne e motori, umani e non.
Gaiardoni, quando esplose a Roma, già nel cognome c’era tutta la sua possanza, il suo vigore, la sua esuberanza. Maspes, Gasparella, Ogna, Lombardi, Bianchetto e Beghetto, poi Pettenella e Damiano. La velocità era italiana. Nella sua indole storica, nella sua natura caratteriale. Chi di testa, loro di testa e di gambe. Come Ferrari, Alfa Romeo, Maserati, ma a quadricipiti. Gaiardoni si issò immediatamente a sfidante, avversario, duellante del monarca assoluto, Antonio Maspes. Come Girardengo e Binda, come Bartali e Coppi, o si stava con Maspes o si stava con Gaiardoni, o di qui o di là, non su strada, ma in pista, non in velodromi naturali di due-trecento chilometri, ma in catini costruiti sottraendo e levigando boschi di pini e abeti, non affrontandosi e misurandosi per battaglie di tre settimane, ma studiandosi e combattendosi sui centesimi di secondo. Tranne quando prolungavano a dismisura i loro tenzoni con i surplace. Era lì che gli sprinter arrestavano il tempo. Capovolgendo il senso, rivoluzionando il metodo della loro specialità. L’immobilismo in una prova, una recita, una rappresentazione della velocità. Geniale. Finché le stelle di Maspes e Gaiardoni si sono eclissate e, senza di loro, quell’età dell’oro della pista è tramontata.
Ero alla “Gazzetta dello Sport”, il 19 settembre 2000, quando telefonai a Maspes e Gaiardoni per invitarli in via Solferino, in redazione. Maspes aveva 68 anni, Gaiardoni 61. Si presentarono in tuta. Date le dimensioni da ex-moltoex-velocisti, era l’unico abbigliamento possibile. Quando li presentai agli altri redattori, avvertii imbarazzo e stupore. Ma quando il Tugnela e il Gianni cominciarono a raccontare le loro avventure, i loro trucchi, le loro imprese, conquistarono subito la platea da consumati attori di avanspettacolo. E intanto la platea si addensava di giornalisti, fattorini, archivisti. E quando ai due eroi, in quella improvvisata assemblea di redazione, si unì Candido Cannavò – il direttore, appena poteva, si liberava da impegni ufficiali e respirava aria di sport -, fu autentico commedia dell’arte. Botte e risposte, battute e battutacce. Come quando Maspes spiegava come, per osservare Gaiardoni alle sue spalle (nella velocità, a quel tempo, chi stava dietro era favorito), lustrava un bottoncino sui guanti fino a renderlo uno specchio. Come quando Maspes raccontava come nascondesse la sua bicicletta per non svelare il rapporto scelto, come quando Gaiardoni diceva che aveva trovato dove fosse la bicicletta di Maspes e che aveva scoperto il rapporto scelto, come quando Maspes diceva che sapendo che Gaiardoni avrebbe trovato la bicicletta e scoperto il rapporto, aveva sistemato altrove la vera bici con il vero rapporto.
L’ultima volta in cui Gaiardoni, in versione il Gianni, si era visto in pubblico, era stato per Pettenella, il Vanni, il pollivendolo volante: il 15 aprile scorso, una targa commemorativa nella piazza della sua Dergano, a Milano. Il Gianni stanco ma presente, vulnerabile ma consapevole, commosso e commovente, la folla che alla fine dell’affettuosa manifestazione lo ha, ancora una volta, circondato per una firma, una foto, un abbraccio, una pacca, un mi-ricordo o un ti-ricordi. Perché Gaiardoni era un pezzo di tutti noi. Il pezzo più forte, il pezzo più potente.