Penso a Gian Paolo Ormezzano, GPO, ventotto Giri d’Italia, quindici Tour de France, “un amore, un incubo”. Ma ciclismo soltanto come una frazione della sua bulimia letteraria. Infatti: autore, attore, mattatore, scriba, scrivano, scrittore, cronista, colorista, opinionista. E viaggiatore, a volte commesso, a volte anche commosso, sempre divertito e appassionato, sempre curioso e disincantato. Insomma, giornalista sportivo, o anche, cantaglorie. In una parola: fuoriclasse. In un’altra: gigante. Comunque, a proposito di ciclismo, due perle. La prima: “Giro d’Italia 1961, partenza dalla Sicilia, trasferimento da Genova a Marsala su una motonave Costa. A cena, un cameriere propone formaggi, Adriano Durante chiede qualcosa di locale. Locale in mezzo al Mediterraneo”. La seconda: “Tappa a San Pellegrino Terme. Rientro alticcio in albergo con Giorgio Raineri. Nel corridoio, fuori dalle porte, le scarpe dei colleghi. Ci guardiamo, poi entriamo in azione. Il Brembo mugghiava. Prendiamo le scarpe, una per paio, e le lanciamo nel fiume. Reato confessato solo una ventina di anni dopo”.
Penso a Gianni Mura, il Dottorone, almeno nell’affettuosa laurea regalatagli dal Carlo Pierelli, il Carletto, suo personalissimo e amicissimo autista al Tour de France. Mura che si ostinava a battere i pezzi a macchina (Olivetti Lettera 22) nelle sale-stampa (palazzetti dello sport, teatri, auditorium...) dove gli altri novecentonovantanove inviati frusciavano sui tasti dei computer portatili. Mura che ascoltava entusiasmandosi per Giovanna Marini e Sergio Endrigo, che leggeva godendosi Georges Simenon e il suo Maigret, che dava voti a mediani di spinta e mezzali di regia ma anche a pecorini romani e grappe trivenete, che detestava punti esclamativi e puntini di sospensione, che – con la complicità del collega Fabrizio Ravelli di “la Repubblica” – superò i trecento anagrammi per il direttore Eugenio Scalfari.
Penso a Claudio Gregori, Greg, laurea in Matematica, ma che alla freddezza dei numeri ha preferito da subito il calore delle parole, anche mistiche e liturgiche, capace di trasformare i pezzi in canti – appunto – gregoriani. Lui che, prima di inabissarsi negli archivi cartacei della “Gazzetta dello Sport”, indossava i paramenti sacri (copyright del collega Germano Bovolenta); lui che, durante una tappa del Giro d’Italia, lanciati nella discesa di un passo alpino, osava ordinare all’Auriga, l’amico-autista Gigi Belcredi, di inchiodare la macchina e poi, estasiato, ci indicava un finocchietto selvatico; lui che, senza tavolozza e colori, pennellava frasi tipo “la salita è un ossimoro: è la fatica che sposa il piacere”.
Penso che i giornalisti di ciclismo abbiano (avevano?) una marcia in più: perché vivono (vivevano?) sulla strada. Penso che i giornalisti di ciclismo, approdati alla pensione, rimangano nomadi dentro, nell’anima, nello spirito, nell’approccio alla vita. Penso che i giornalisti di ciclismo erano più fortunati di tutti gli altri, in particolare dei colleghi di calcio, perché erano i corridori a venire da noi e non noi ad andare da loro, tanta c’era affettuosa familiarità, tanto c’era reciproco rispetto. E penso che Giancarlo Dionisio ne sia proprio un bell’esemplare e anche un buon esempio. Per amore e per rigore. E questo libro ne è la prova autentica.
questo il link alla prima puntata
Se sei giá nostro utente esegui il login altrimenti registrati.