Per il suo "Sulle strade eroiche del Tour de Suisse" (Fontana), Giancarlo Dionisio mi ha chiesto una prefazione. Non sapendole scrivere, ho cercato di ragionare sul giornalismo del ciclismo. Questa è la prima parte.
Penso a Bruno Raschi, il Divino, perché divinamente scriveva (a macchina) e divinamente parlava (a braccio), giornalista da cattedra ma anche da marciapiede e, durante il Giro d’Italia, da ammiraglia, quella del patron Vincenzo Torriani. In una tappa, quando Torriani si svegliò da un sonnellino che si concedeva a telecamere spente e gli domandò come andasse la corsa, Raschi fu prontissimo a dirgli che, solitario, davanti al gruppo, pedalava un cicloamatore. Torriani s’infuriò, brandì una bandierina, emerse dal tettuccio della macchina e, sbracciando e vociando, cercò di allontanare l’uomo solo al comando. Quel corridore, in maglia a fasce gialle e rosse, stupito dall’atteggiamento di Torriani, si chiamava Domingo Perurena ed era il campione di Spagna. Solo Raschi, da uno scherzo così – prendere in giro il patron del Giro - poteva uscirne vivo.
Penso a Mario Fossati, il Cardinale, come lo chiamava Gianni Brera, suo amico di sempre, quando Fossati presenziava alla Sei Giorni. Fossati che amava il ciclismo, “sport di poveri per poveri”, così come lo era il pugilato. Fossati che alla partenza delle corse ammirava i corridori, anche i gregari, anche gli ultimi, come se fossero dei o almeno semidei. Fossati che calibrava aggettivi e verbi, che elesse il Vigorelli al Teatro alla Scala del ciclismo (“dall’elegante tettoia, fatto di preziose tessere di legno, illuminato a giorno, era un transatlantico attraccato alla banchina del Sempione”), che definì il Mont Ventoux “una montagna calva, affetta da seborrea secca”, che chiamava gli appassionati del ciclismo su pista “i vecchi della parrocchia, la confraternita degli iniziati”, che smise di seguire le corse quando si accorse che i nuovi giornalisti andavano a Coca-Cola e lui insisteva con il vino rosso. Fossati, il migliore.
Penso a Candido Cannavò, SuperCandido. Il Direttore predicava la precisione e malediceva la sciatteria, apprezzava la fantasia e diffidava dell’ironia, e aveva sempre chiari, sempre presenti, sempre lucenti i comandamenti del suo lavoro, del suo artigianato artistico, della sua missione: “Emergono sovrani due monumenti dello sport e della vita: l’incomparabile sapore delle emozioni e l’immensa importanza dei valori morali”. Campione di giornalismo, detentore del primato di longevità alla direzione della Rosea (diciotto anni) e anche del primato dei rimpianti (dei lettori) e delle nostalgie (dei redattori) per quel ruolo, Cannavò amava il ciclismo più di tutti gli altri sport, di cui era comunque innamorato e competente. Il Giro lo seguiva con la felicità di un bambino al luna park. E di quella felicità riusciva a mantenere anche semplicità e purezza. Come quella tappa, la Lecce-Lecce inaugurale dell’edizione 2003, quando approfittò di una partenza lenta del gruppo e rapida della sua macchina per tuffarsi nelle acque dello Jonio e poi salutare, nudo ma costumato, ammiraglie e corridori.
Penso a Sergio Zavoli, il Socialista di Dio, dalla gavetta alla presidenza della Rai, come dire da chierichetto a papa, che ha attraversato non solo il Novecento (e un po’ del Duemila), ma anche tutti i mezzi, tutti gli strumenti, tutte le possibilità e tutti i ruoli della comunicazione. Nel 1962 ideò il “Processo alla tappa”, un programma tv che seguiva il Giro d’Italia, ribelle e garbato, rivoluzionario e sentimentale, scandaloso (come quando Felice Gimondi si fece scappare l’espressione “è successo un gran casino”) e romantico. Le lezioni più convincenti, sosteneva Zavoli, le doveva proprio al ciclismo, e in particolare ai gregari: “I gregari mi parlavano della vita in generale, i campioni della loro vita in particolare”. Una bella differenza. Fu così che lanciò umili pedalatori come “Italo Mazzacurati, bolognese, lo spirito allegro del gruppo, che con un’invenzione scompaginava la carovana: la sua specialità era navigare in fondo al plotone e imprigionare qualche capitano rimasto attardato, la chiamava la ragnatela”. Fu così che immortalò modesti fuggitivi come Lucillo Lievore, vicentino, che un giorno guadagnò diciassette minuti sul gruppo. “Sarà stato per il distacco, immenso, o per il paesaggio, fatto di calanchi e terra simile alla pomice, che quella fuga solitaria divenne epica, anzi, metafisica. Lievore temeva che il gruppo lo riprendesse. Ma la cosa straordinaria era che davanti a lui c’era un altro corridore, Pietro Scandelli, lombardo, Lievore lo sapeva, io no. E alla fine tutto questo mi sembrò un’altra metafora della vita: si può lottare anche per arrivare secondi, o terzi, o ultimi, o fuori tempo massimo. Perché il mondo è fatto di gente che sputa sangue pur di farcela”.
(fine della prima delle due puntate - continua)
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