La Broglina. E’ una salita. La partenza da Bollengo, una sessantina di chilometri a nord di Torino, una ventina a sud di Biella. Sei chilometri e 350 metri (e sei tornanti) per passare da 220 a 544 metri, il dislivello è di 316 metri, la pendenza media del 5 per cento. Da Bollengo per raggiungere l’Everest in orizzontale ci vorrebbero mesi, o anni, e alla fine sarebbe impossibile. Ma raggiungerlo in verticale, 8848 metri, si può: bisogna ripetere la Broglina, su e giù, 28 volte. I conti aritmetici tornano con una precisione sorprendente. E quelli umani? E quelli spirituali?
Silvia Grua sembra più forte nei conti umani e spirituali che non in quelli aritmetici. Il 4 settembre 2021, a mezzanotte, comincia la sua sfida, la sua impresa, il suo Everesting. Non è la prima, e non sarà l’ultima. Non è la più veloce, e non sarà la più lenta. Non è una competizione contro altre o altri, lo è un po’ con se stessa e lo è molto con e contro la sua malattia. Cancro. Ha già subito dodici interventi chirurgici e innumerevoli sedute di chemioterapia e radioterapia. Per dimostrare che volere è potere, anche il volere più importante di tutti, il voler vivere, Silvia avrebbe percorso 343 chilometri in 18 ore e 11 minuti, con un dislivello poi risultato di di 8912 metri, più in alto della più alta cima del mondo. Ce l’ha fatta.
Silvia Grua si racconta in “I colori della salita” (Capovolte, 96 pagine, 14 euro). Lei nata a Villareggia, un paesino del Canavese. Lei cresciuta in una famiglia che, per campare, si è sempre data da fare. Lei fortificata prima in una palestra, poi a forza di camminare e correre, e poi di pedalare. Lei sbalordita dalla diagnosi di cancro, e poi da quelle di recidiva. Lei sospesa fra rabbia e disperazione, attese e speranze, propositi e pianti. Lei rinata grazie a una forza – il voler vivere – capace di tutto. Lei risorta grazie alle montagne, da respirare e abitare, da arrampicare a piedi o in bici, da scalare con le gambe e con la testa. Prima l’Alta Via della Valle d’Aosta, a piedi. Poi l’Everesting, in bici. Tra allenamenti e gare, tra amiche e amici, tra il conto alla rovescia e una gioia indescrivibile.
“Ricerco in me le figure della mia resilienza, portata avanti nei freddi corridoi degli ospedali, nel medicare le cicatrici che ogni singolo giorno rivedo sul mio corpo, nel girare continuamente le pagine di un libro che non immaginavo di vivere come protagonista. Percorrere una strada che mi spalanca di fronte scenari che mai avrei lontanamente immaginato, con continue tappe da percorrere, da scavalcare in salita”. Il ciclismo come metafora della vita, il pedalare come terapia della sopravvivenza, la bicicletta come strumento di felicità.
“I colori della salita”, più che sugli scaffali delle librerie, dovrebbe trovarsi nei reparti degli ospedali. E’ una medicina che cura l’anima e, probabilmente, anche il corpo.
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