E’ un libro di corridori: “Abituati da sempre a svegliarsi con le galline, Bugno lasciava la propria abitazione in macchina e si dirigeva ad Almé, dove arrivava regolarmente poco dopo le sette. Qui toglieva la bici dalla macchina, entrava in casa Stanga quando non tutta la famiglia si era ancora svegliata, si faceva fare un caffè dalla signora Patrizia, oppure se lo scaldava da solo, dopodiché partiva per l’allenamento scalando a tutta la Roncola”.
E’ un libro di corse: Marco Pinotti, “sapendo che nel gruppetto di testa c’era gente più veloce di lui, aveva giocato il tutto per tutto entrando in testa nella curva a U che scavalca il Brembo sul ponte della stazione. Ma sul rettilineo finale, nemmeno troppo lungo, era schizzato fuori dalla sua ruota il toscano Eros Capecchi, sveglio e opportunista al punto giusto, il quale lo aveva seccato come un baccalà a cinquanta metri dallo striscione”.
E’ un libro di geografia: “In provincia di Bergamo nessun valico su strada carrozzabile arriva a toccare i 2000 metri. Quello che più li avvicina è il Passo di San Marco, il cui culmine, posto al confine con la provincia di Sondrio, è posto a quota 1985”.
E’ un libro di storia: Presolana, “sull’origine del nome numerose sono le versioni, quasi tutte a sfondo leggendario. La più suggestiva deriverebbe dall’espressione latina ‘Presa Alana’, con riferimento a una battaglia che vide la sconfitta del popolo degli Alani a opera dei Romani”.
E’ un libro di giornalismo: “Candido Cannavò, storico direttore della ‘Gazzetta dello Sport’, che aveva seguito la tappa sull’auto pilotata da Carletto Pierelli, ne rimase colpito a tal punto da definire il Selvino ‘l’Alpe d’Huez del Giro d’Italia’”.
E’ una guida: Selvino, “11,5 chilometri che vanno dai 324 metri di attitudine della piazza della Chiesa di Nembro, dove comincia, ai 960 metri del centro di Selvino, dove termina. Il dislivello è dunque di 636 metri, la pendenza media del 5,5% con punte massime rilevabili attorno al 10%”.
E’, soprattutto, un’autobiografia: “Cresciuto da adolescente col mito di Coppi e poi da giovane con quello di Gimondi”, “Per me la bicicletta è da sempre uno strumento di gioia e di fatica, anzi di gioia attraverso la fatica”, “Nelle mie pedalate estive non mi è mai capitato di ridiscendere dalla stessa parte una volta raggiunta la cima del Miragolo”, Val di Scalve “pochi furono i superstiti di quella strage: uno di essi è il papà di chi scrive, ferito e privato della vista di un occhio, ma miracolosamente salvo”, “La sofferenza disumana del San Fermo non ha paragoni nella mia memoria”, “Un paio di volte ho afferrato il coraggio a due mani e, aggiungendoci una buona dose di incoscienza, ho deciso di vedermela a tu per tu con la salita di Sant’Antonio Abbandonato”.
Ildo Serantoni ha scritto ”Le salite delle Orobie” (Bolis edizioni, 156 pagine 14 euro), tra corse e corridori, storia e geografia, guida e autobiografia, e altro ancora, un’opera straordinariamente giornalistica ambientata sulle strade del Bergamasco, in bici, in salita, in gruppo, un gruppo senza età e senza maglie, da Girardengo a Pogacar, da Vanotti a Serpellini, da Gualdi a Guerini, allargandosi a sciatori e alpinisti, frati e monsignori, scrittori e bariste. Ildo (Ildebrando il suo nome longobardo all’anagrafe) è un giornalista a pedali e un pedalatore a tastiera, è un camoscio orobico (un gruppo di cicloturisti bergamaschi, cui Ildo si unì per un bel po’, si erano battezzati proprio così) ante litteram e una maglia rosa (autore di “Auguri Gazzetta! Storie e ritratti di dieci anni in rosa”, Bolis, 2021) ad honorem. Ottantadue anni (verificati, ma insospettabili), antico pallavolista ed eterno stradista (da 10mila chilometri l’anno), Ildo ha fatto della sua passione una professione, lo sport come vocazione e missione, la curiosità come istinto, la precisione come comandamento. E, dentro, anche ai piedi di un colle, un fuoco che non si spegne. E questo suo libro, va da sé, non sente la catena.
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