Truccare il motore, ma nel proprio sangue, sulla propria pelle, per i propri muscoli. Ingigantirsi e moltiplicarsi, ma per modificarsi e trasformarsi. Abbattere i record, ma anche le regole. Perché la linea di confine tra lecito e illecito, tra impresa e scandalo, tra miracolo e misfatto, tra percorso e scorciatoia, tra fisiologia e alchimia è, spesso, invisibile. Sport, troppo spesso, significa doping.
Da che sport è sport, il doping è sempre esistito e ha sempre convissuto. Stesso stadio, corsia parallela. Stesso spogliatoio, altro armadietto. Stessa squadra, altro trattamento. Nella “Teogonia”, la storia degli dei scritta da Esiodo intorno al 700 a.C., c’è una divinità che concede la vittoria agli atleti: si chiama Ecate ed è specializzata non nella giustizia o nella trasparenza, non nella lealtà o nella equità, ma nella magia. Allora si chiamava magia, ma forse era un magheggio. Adesso si direbbe: doping. E siccome quel doping era divino, godeva del suo marchio di fabbrica, della sua denominazione di origine controllata, della sua speciale autorizzazione.
Poi, probabilmente perché Ecate interveniva così raramente e imprevedibilmente, ci pensarono gli stessi atleti. Da soli. Che giuravano e spergiuravano proprio sugli dei dell’Olimpo, che avrebbero fedelmente osservato le regole delle gare. Poi, appena potevano, truccavano le gare. E si drogavano. I semi di sesamo erano considerati doping: in caso di assunzione, si poteva arrivare perfino alla condanna a morte. E c’era chi mangiava testicoli crudi di animali. Anche di tori. Oggi si è evoluto, raffinato, perfezionato, specializzato. All’avanguardia. In continua ricerca. In calibrato anticipo sull’antidoping.
Sergio Giuntini ha scritto “Lo sport imbroglione” (Ediciclo, 334 pagine, 20 euro, con la prefazione di Stefano Pivato), la storia del doping da Dorando Pietri ad Alex Schwazer attraverso gli artifici di Stato (la Germania nazista e la Ddr, l’Unione Sovietica ma anche l’Italia di Francesco Conconi) e le campagne per la pulizia (a cominciare da Gianni Brera, sul “Giorno”, nel 1956: “La chimica, ormai, impronta molto di sé l’agonismo moderno. Bastano tre pillolette per esaltare un bipede a eroe”), la cocaina di Diego Armando Maradona e l’eritropoietina di Lance Armstrong, le bombe di Ben Johnson e le battaglie di Sandro Donati, il sistema della Juventus e la denuncia di Zdenek Zeman, fino al dibattito fra proibizionisti e antiproibizionisti, fra la tolleranza zero e il liberi tutti.
C’è molto ciclismo imbroglione. Fisicamente, il ciclismo è lo sport che richiede più resistenza e sofferenza. Scientificamente, lo sport più facile su cui intervenire. Umanamente, lo sport più fragile su cui diffondersi. La prima vittima del doping fu il britannico Arthur Linton, primatista dell’ora, assistito da allenatori in bici a motore, con 45,433 km. Il suo preparatore, l’inglese Choppy Warburton, consigliava e propinava miscele di birra metà scura e forte e metà chiara e leggera, cui aggiungeva eccitanti o deprimenti. Obiettivo: scommettere e vincere su vittorie e sconfitte dei suoi corridori. Linton morì dopo la Bordeaux-Parigi del 1896, ufficialmente per una febbre tifoide, più probabilmente per una miscela di cocaina, stricnina e caffeina calibrata da Warburton. Aveva 28 anni.
Giuntini cita Gino Bartali e Fausto Coppi nel duetto al “Musichiere” nel 1959, ricorda Tom Simpson sul Mont Ventoux al Tour de France 1967, torna su Eddy Merckx a Savona al Giro d’Italia 1969, esplora il caso Festina al Tour de France 1998, non può sottrarsi al Marco Pantani prima e dopo il test di Madonna di Campiglio al Giro d’Italia 1999, rivisita l’exploit di Riccardo Riccò e gli anni del Cera. Gli anni di piombo del ciclismo, che pure ha il merito di essere stato lo sport che più ha combattuto (e combatte) il doping, consapevole dei danni, forse irreparabili, alla credibilità dell’intero movimento, dunque al suo passato e al suo presente, come nella storia di Giuntini, soprattutto al suo futuro.
Già, il futuro. Come combattere “lo sport imbroglione”? Con la scienza (l’antidoping), con le leggi (civili e penali), con la cultura (in squadra, all’oratorio, in biblioteca), con i genitori (meglio se presenti a casa e assenti al campo o in palestra), anche con i libri (quelli buoni, come questo), soprattutto con lo sport. A scuola. Lo sport da praticare, non da guardare, cominciando all’asilo con la psicomotricità e continuando dalle elementari all’università con le discipline individuali e di squadra. In Italia lo sport di vertice, quello dei titoli mondiali e olimpici, è il risultato di isolatissimi esempi valorosi. E lo sport di base, quello per tutti e di tutti, non esiste.