Per anni il traguardo più importante è stato lo striscione d’arrivo, tagliato per primo da professionista per almeno 73 volte (anche se lui assicura essere di più, comprendendo i numerosi circuiti ad ingaggio che sfuggono alla contabilità ufficiale). Stavolta però il traguardo è quello dell’età, con le 80 candeline che oggi Michele Dancelli di Castenedolo ha spento in famiglia circondato dai figli e dai nipoti anche se a mancargli di più sarà il sorriso di Susy, sua compagna per oltre 40 anni venuta a mancare improvvisamente qualche mese fa.
Un velo di malinconia che tuttavia non cancella quanto di grandioso ha compiuto nella sua vita d’atleta, a partire dalla vittoria alla Milano - Sanremo del 1970, il suo successo più iconico, quello che più di altri l’ha consegnato alla storia del ciclismo.
La vittoria più grande. «Nessuno credeva potessi vincere la Sanremo con una fuga solitaria da lontano - ricorda Michele - dal mio direttore sportivo Albani che mi rimproverò subito quando lasciai i compagni di fuga dopo il traguardo volante di Loano, alla televisione che non mi inquadrò mai nel mio tentativo con la telecamere finsul rettilineo d’arrivo e neppure i miei avversari».
Quel successo fece capire a tutti che Michele era un grande campione, ma fin dai suoi esordi con i professionisti il ragazzo di Castenedolo aveva dimostrato di aver stoffa. «Quando passai professionista nell’autunno del 1963 avevo alle spalle già due titoli tricolori con i dilettanti, il primo del Csi che fu anche la mia prima vittoria in assoluto in bicicletta, attraverso la quale convins mia madre a farmi provarea fare il ciclista a tempo pieno anziché spaccarmi la schiena per 10 ore al giorno in cantiere come muratore. Al mio primo Giro d’Italia nel 1964 conquistai tappa e maglia rosa a Brescia diventando a 22 anni già molto popolare. Poi arrivarono tanti altri successi, al Giro d’Italia perché era il fulcro delle mie stagioni da professionista. Vinsi anche una tappa al Tour de France, l’unico corso nel 1969, e in una frazione della corsa francese nella quale il grande Merckx (il più grande di ogni tempo a mio giudizio) compì la più bella impresa sportiva scalando le maggiori vette pirenaiche in solitudine io fui secondo all’inseguimento e venni premiato con la fascia del più combattivo. Nell’unica Vuelta di Spagna corsa poi fui costretto al ritiro quando ero leader di tutte le classifiche pur anche senza aver vinto una tappa. E poi ci sono le vittorie nelle classiche, dalla Freccia Vallone, portato a spalle in trionfo in maglia tricolore dagli emigrati italiani delle nostre valli, a quelle italiane, su tutte il Giro dell’Appennino, la corsa che mi è più rimasta nel cuore perché una volta andai talmente forte che dopo l’arrivo ricevetti i sinceri complimenti da tutti i colleghi per quanto andavo forte».
Avversari. A proposito di colleghi, aveva più avversari o amici?
«Avversari lo erano in corsa, fuori tutti amici, con alcuni lo sono rimasto tuttora. Mi riferisco a Gianni Motta e ai bresciani Mario Anni, mio fidato gregario e Davide Boifava, grande come direttore sportivo, ma non scherzava neppure come atleta. Con loro mi sento e mi vedo spesso».
Rimpianti. «Non essere riuscito mai a indossare la maglia di campione del mondo. Con la Nazionale nel 1966 volavo ma mi fu imposto di sacrificarmi per Motta, fui bronzo nel 1968 e ’69. Anche il Lombardia che ho sfiorato in qualche occasione mi manca, poi non vi dico come ho perso il Fiandre e la Roubaix. Infine nel 1971,mi ruppi il femore alla Tirreno e accelerai troppo il ritorno alle corse per non perdere il Giro. Da allora iniziò il mio declino sportivo, mi ritirai a soli 32 anni, ma penso comunque di aver dato spettacolo. Almeno per chi se lo ricor-
da».
da Il Giornale di Brescia