Era il più matto. Una volta, in corsa, si fermò in una coltivazione di mele verdi, ne riempì la sacchetta del rifornimento, poi inseguì il gruppo, rientrò e distribuì la refurtiva agli avversari più forti senza tenerne neppure una per sé. Fu un’ecatombe gastrointestinale. E lui, che sosteneva di essersi sacrificato per loro, vinse.
Ieri è morto Roger Hassenforder, il corridore più matto della storia. Aveva il culto dello scherzo, il gusto della burla, lo spirito del gioco. La sua filosofia era il divertimento. Lo chiamavano “Boute-en-train”, il Mattacchione. Ma quando ci si metteva, volava. E vinceva. Professionista dal 1952 al 1965, vinse otto tappe al Tour de France e indossò la maglia gialla per quattro giorni.
Roger era il primo di cinque figli, tre sorelle e due fratelli. Nacque a Sausheim, in Alsazia, dove la Francia confina con la Germania, il 23 luglio 1930, un giorno da Tour de France. Si correva la Evian-Belfort, 282 chilometri, primo all’arrivo un belga, Frans Bonduel, primo in classifica un francese, André Leducq. Solo una cinquantina di chilometri da Belfort a Sausheim: il richiamo del ciclismo si rivelò fin da subito irresistibile.
L’infanzia, nelle parole dello stesso Hassenforder, fu selvaggia: cacciava conigli, e li cucinava, pescava nell’Ill e nel Quatelbac, di giorno con le canne fatte e mano, di notte con le reti, poi barattava i pesci con verdure e formaggi. Preferiva la vita all’aperto a quella al chiuso, soprattutto se si trattava della a scuola. Quando finalmente ne uscì, a 18 anni, libero come dopo una scarcerazione, sapeva leggere ma non scrivere. Aveva altro per la testa, e fra le mani. “Un giorno – mi raccontò, lo si incontrava sulle strade del Tour de France - misi cinque o sei petardi in una scatola, la scatola in un fornello, e l’esplosione riempì la scuola di polvere”. E in guerra, durante l’occupazione tedesca, dimostrò coraggio, o forse incoscienza, insomma, la sua pazzia: “Mentre i soldati tedeschi mangiavano, rubai sette revolver. Scattò l’allarme. Le armi, annunciarono, devono essere denunciate, altrimenti il villaggio sarà evacuato. Mia madre mi disse: ci porterai al cimitero! Detto e fatto: andai lì, sollevai una lapide e nascosi i revolver in una tomba”. Con lo stesso coraggio, o forse incoscienza, o insomma, pazzia, rimuoveva le mine nella foresta di Hardt con gli amici: “Uno di noi fu catturato e deportato ad Auschwitz. Io ci andai tre volte e ne uscii sempre con il fazzoletto in mano”. Tempi di guerra: “Giocavamo alla roulette russa”.
Lo salvò la bicicletta. “Facevo il pittore a Mulhouse, come mio padre. Facevamo la gara: lui in macchina, io in bici. E arrivavo prima di lui”. Lì a Mulhouse scoprì il ciclismo: “La prima gara il 14 luglio 1947. Mi dissero di provare a fare un giro cronometrato. Feci segnare il migliore tempo. Non ci credevano. Rifeci il giro e migliorai il mio tempo. Chi lo avrebbe detto? Loro no, ma io sì. Sapevo di essere il più forte”. Roger collezionava vittorie e scherzi. “Quante volte andavo in fuga, poi mi nascondevo, lasciavo passare il gruppo che mi inseguiva disperatamente, poi rientravo e li guardavo, loro morivano di rabbia, io di risate”. I direttori sportivi si buttarono su di lui. La svolta nell’ottobre del 1950. “Facevo il servizio militare a Reims, al Quarto Corazzieri, fu lì che cominciarono a chiamarmi soltanto ‘Hassen’. Avevano organizzato il Simplex Trophy nell’autodromo. Duecentocinquanta iscritti, di cui una decina già selezionata per rappresentare l’Alsazia. Andai a prenderli alla stazione. Gli dissi che avrei vinto io. E vinsi. Firmai per la Mercier-Hutchinson di Antonin Magne. Aveva vinto il Tour nel 1931 e nel 1934. E anch’io volevo vincere il Tour”.
Non ci sarebbe riuscito. Troppo forte la sua voglia di vivere e divertirsi. Ercole Baldini racconta che ‘Hassen’, in corsa, scappava dal gruppo e quando attraversava una città, chiedeva a un vigile di dargli la giacca e il cappello e poi, al passaggio dei corridori, dirigeva il traffico. E che, fuori corsa, riuscì a guidare contemporaneamente due macchine, metà di qui e metà di là, ma come non si sa. Nel dicembre del 1959 ‘Hassen’ era con Fausto Coppi (e con Jacques Anquetil, Henri Anglade, Raphael Geminiani e Roger Rivière) nell’Alto Volta, in Africa. “Fausto mi voleva bene”, tant’è che gli aveva proposto di correre con lui e per lui, nella Tricofilina-Coppi.
Chiuso con il ciclismo, Hassenforder aprì un ristorante-albergo, a Kaysersberg, in Alsazia, zona di vigneti e talvolta di Tour de France. E ogni volta che quello sciame di biciclette, quella carovana di macchine e quell’onda di felicità passavano, ‘Hassen’ la omaggiava. L’ultima volta il 10 luglio 2019, sulla linea d’arrivo della Saint-Dié-Colmar. Ieri, il traguardo finale al Centre départimental de repos et de soins di Colmar. Riposo e cure. Il vecchio ‘Hassen’, dopo novant’anni di fuochi artificiali, se li meritava.
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