di Francesca Monzone
L’Australia non è tra i Paesi in cui il ciclismo è uno degli sport più praticati e non sono molti i padri che trasmettono ai figli la passione per le due ruote. Molto più facile indirizzarli verso il rugby o gli sport acquatici, il surf su tutti.
Poi ci sono le eccezioni come a casa Hindley, dove la passione per il ciclism ha spinto papà Gordon a portare il piccolo Jai al al Perth Velodrome per farlo partecipare ad un programma per bambini della West Midland Federation. L’allenatore si chiamava Rick Lee, ma poco dopo partì per gli Stati Uniti e a sostituirlo come tecnico fu proprio papà Gordon.
Il piccolo Hindley pedalava e guardava le corse europee in televisione, le conosceva tutte e poi come tutti i bambini aveva degli eroi ai quali voleva assomigliare.
«Quando ero più giovane il mio idolo era Robbie McEwen perché correva con la maglia della nazionale e sprintava sempre. Poi quando sono cresciuto il mio corridore preferito è diventato Robert Power perché abbiamo lo stesso background e abbiamo corso nello stesso team quando eravamo giovani, è diventato un amico e fonte di ispirazione».
Papà Gordon ha portato il piccolo Jai in Francia sulle strade del Tour quando era bambino e si divertiva a raccontargli le storie dei grandi corridori.
«Devo molto alla mia famiglia, mi hanno aiutato a crescere e a diventare un ciclista. Per un anno ho provato a giocare a rugby, non so neanche il perché, ma poi ho capito che volevo diventare un ciclista ed è quello che ho fatto».
Il ragazzo è cresciuto e di strada ne ha fatta tanta dai giorni in cui pedalava al velodromo di Perth. Sa bene che, come tutti i suoi connazionali, per far carriera nel mondo del ciclismo, deve lasciare la sua terra e volare in Europa. Approda in Italia, a Montesilvano, ospite di Umbertone Di Giuseppe che è sì il direttore sportivo della Aran Cucine ma diventa soprattutto un secondo padre per Jai. Il ragazzo si innamora subito della terra d’Abruzzo, corre e cresce, sognando di vincere un giorno un grande giro.
E quest’anno, come in una favola a lieto fine, il ragazzo partito da lontano ha stravolto il Giro d’Italia, diventando il primo australiano a vincere la corsa e il secondo in assoluto a conquistare un grande giro, dopo Cadel Evans (che era a Verona per applaudirlo) re del Tour de France nel 2011.
«Ero nervoso nell’ultima cronometro perché ho ripensato a quanto era accaduto al Giro del 2020, quando ho indossato la maglia rosa per la crono conclusiva e l’ho persa, cedendola a Tao Geoghegan Hart».
Quell’anno Jai correva con la DSM, formava la “strana coppia” con Wilko Kelderman ed entrambi cedettero il paso al britannico, pur salendo sul podio. Poi prima Wilco a fine 2020 e poi Jai a fine 2021 hanno lasciato la DSM per ritrovarsi a vestire la maglia della Bora Hansgrohe e a correre una vota ancora il Giro d’Italia insieme.
«Quando sono partito per la cronometro di Verona ero molto più fiducioso rispetto al 2020, anche la situazione in classifica era diversa e il percorso questa volta era più adatto alle mie caratteristiche».
La concentrazione però non si è mai abbassata: «Non pensavo molto alla maglia rosa né a vincere il Giro, quando sono partito ho pensato solo a fare la cronometro nel miglior modo possibile. Quando sono arrivato al tempo intermedio e mi hanno detto che ero molto vicino a Carapaz allora ho iniziato un po’ a rilassarmi».
Ventiquattr’ore prima Hindley aveva spezzato l’estremo equilibrio che ha caratterizzato tutto il Giro, costringendo alla resa Richard Carapaz in maglia rosa e tenendo lontano Mikel Landa, il terzo incomodo.
Negli ultimi chilometri di salita sulla Marmolada, la tattica della Bora ha dato i frutti tanto agognati: l’accelerata di uno splendido Kämna sui drittoni di quella salita infinita e poi l’attacco di Jai con Carapaz che abbassa la testa e si arrende.
«Arrivare in maglia rosa all’Arena è stato veramente speciale. Quanto è accaduto al Giro 2020 mi ha segnato profondamente, ma allo stesso tempo è stata proprio quella sconfitta a darmi una grande motivazione. Il 2021 è stato un anno molto difficile per me, a causa delle restrizioni dettate dal Covid non ho potuto tornare in Australia per un lunghissimo periodo e pedalare senza poter vedere la propria famiglia è stato molto difficile, non li ho visti praticamente per 2 anni e mezzo».
A febbraio del 2020 Jai aveva salutato tutti, con la promessa di tornare dopo qualche mese. Purtroppo poi è arrivato il Covid e il ragazzo di Perth, si è dovuto rassegnare a parlare con familiari e amici e casa solo attraverso le videochiamate.
«Ho dovuto fare tanti sacrifici per diventare un ciclista professionista, mi sono trasferito presto ad Andorra, ma sono orgoglioso di essere australiano. Se vieni dall’Australia e vuoi fare il ciclista professionista devi essere molto forte dal punto di vista mentale».
Le vittorie di questo giovane non sono tante, ma la voglia di fare bene non gli è mai mancata e ora, con il successo alla corsa italiana, sa che potrà ancora fare di più.
«Un grande giro è sempre molto difficile da vincere, bisogna fare dei calcoli precisi. Fin dalle prime esperienze nei grandi giri ho imparato che non bisogna mai sprecare energie, soprattutto all’inizio. Anche perché una corsa di tre settimane non va mai come la si pianifica ed è necessario essere pronti a tutto».
Hindley infatti spiega che aveva fatto altri calcoli e pensava che già sul Blockahaus qualcosa di importante sarebbe successo: invece lassù, sulle strade del “suo” Abruzzo, Jai ha sì vinto ma allo sprint, regolando in volata altri cinque big della corsa rosa. È stato quello il primo chiaro segnale dell’equilibrio che avrebbe caratterizzato il Giro tanto da portare Carapaz e Hindley ad essere separati da soli tre secondi al via della tappa decisiva. Un equilibrio che il ventiseienne australiano ha avuto la forza di rompere in maniera clamorosa, spettacolare e, perché no?, anche inattesa.
«Il 2020 mi ha fatto crescere non solo come corridore ma anche come uomo, mentre quest’inverno ho cambiato squadra e per me è stato come respirara una ventata di aria nuova. La Bora Hansgrohe mi ha dato nuovi stimoli, nuove motivazioni: penso che sia stata la chiave per vincere una corsa importante come il Giro».
La vittoria di Hindley al Giro vale tanto, ma il percorso di Jai è appena iniziato e la voglia di arrivare ancora più in alto è ben sempre presente nella sua mente.
«Questa vittoria non mi cambierà come persona, penso che resterò sempre il solito ragazzo. A Verona, per il finale del Giro, ho avuto anche il regalo più bello, perché sono arrivati mamma Robyn e papà Gordon, non li vedevo da più di due anni. Mi manca l’Australia, mi mancano la famiglia e gli amici, con i quali spero di poter andare a prendere presto una birra. Non abbiamo ancora stabilito il programma della mia stagione, potrei correre la Vuelta e poi volare verso casa, mi piacerebbe disputare il Mondiale in Australia e concedermi alla fine un po’ di relax».
Nei discorsi di Jai la squadra ha un ruolo centrale, è il suo punto di riferimento, anche per il grande lavoro svolto per migliorare nelle prove a cronometro.
«Ci sono stati giorni difficili durante la corsa, ma non ho mai avuto un giorno di vera crisi e la squadra mi ha sempre aiutato e sostenuto. I miei compagni sono stati tutti fenomenali, forse solo quando ho forato nel finale a Treviso ho avuto un po’ paura perché non ero sicuro che avessimo già superato il cartello dei tre chilometri, poi mi hanno detto di star tranquillo e quindi quell’incidente meccanico è stato archiviato senza problemi. Tutto il team è cresciuto molto, sia i corridori che lo staff sono stati incredibili, ovviamente anche i ragazzi che oggi non sono qui ma che mi hanno aiutato durante questi mesi di avvicinamento al Giro. Siamo una squadra coesa, pensate a cosa significhi per me avere corridori come Buchmann, Kämna e Kelderman, solo per fare qualche nome, al mio servizio: è davvero il massimo. Tra l’altro Lennard (Kämna, ndr) è stato bravissimo perché è riuscito a vincere la tappa dell’Etna e questo successo ha dato tranquillità a tutti e ci ha fatto capire di essere sulla strada giusta. Questo Giro ha rappresentato una svolta per tutto il team: adesso le altre squadre ci dovranno temere, perché abbiamo dimostrato che siamo forti nei grandi giri e che punteremo a vincere ancora».
A 26 anni Hindley entra ora in una nuova dimensione, dimostra che il suo secondo posto al Giro del 2020 era tutt’altro che il risultato di una meteora e lascia capire che presto lo vedremo misurarsi con sfide ancora più ambiziose.
Il bambino che a sei anni è stato messo in bici dal papà, senza immaginare allora come sarebbe cambiata la sua vita, è diventato un corridore importante e guarda al futuro con il sorriso di chi sa di poter arrivare in alto.
«Sono cresciuto in fretta ed ero felice quando mi dicevano che avrei dovuto pedalare tutto il giorno, perché era quello che volevo fare veramente. Questa vittoria e questa maglia rappresentano per me qualcosa di davvero importante. Ho vinto il Giro d’Italia e salire sul palco della corsa in maglia rosa, resterà per sempre il giorno più bello della mia vita».
Mentre parla, coccola, accarezza con le mani e con lo sguardo il Trofeo Senza Fine, legge i nomi che sono riportati e alla fine, lassù in cima, guarda il suo nome.
«Questa maglia è bellissima, questo trofeo è davvero il più bello che abbia visto e c’è pure il mio nome...» ripete come un mantra. E confessa: «Spero anch’io di poter essere di ispirazione per qualche bambino, in Australia...».