Fuglsang: «C'è tanta Italia nella mia Liegi»

di Paolo Broggi

È nato a Ginevra, cresciuto ciclisticamente in Italia, sposato con una ragazza lussemburghese, vive a Montecarlo, cor­re per una formazione kazaka e ha vissuto nelle Ardenne una delle settimane più incredibili della sua vita ciclistica.
Jakob Fuglsang a 34 anni (compiuti il 22 marzo alla vigilia della Sanremo) corona l’evoluzione di cui è stato protagonista negli ultimi anni - ha vinto tra l’altro il Delfinato nel 2017 e il Giro di Svizzera lo scorso anno, dopo aver conquistato l’argento olimpico a Rio de Janeiro nel 2016 - si scopre più forte di tutti della Liegi-Bastogne-Liegi.
La domenica di Pasqua era giunto ter­zo all’Amstel Gold Race, dopo essere rimasto allo scoperto per più di 30 chilometri con il suo grande amico rivale Julian Alaphilippe. Tre giorni più tardi, solo il francese della Deceuninck Quick Step era stato più forte di lui sul­le terribili pendenze del Muro di Huy. Ma a Liegi nessuno ha resistito al suo attacco sulla Côte de La Roche aux Faucons e al rilancio sul falsopiano se­guente, quello che gli ha permesso di togliersi dalla scia Formolo e Woods. Gli ultimi 12 chilometri li ha percorsi tutto solo o quasi...
«Magari Michele da lassù mi ha guardato e mi ha protetto...» racconta commentando a distanza di giorni l’incredibile acrobazia compiuta in discesa, quan­do solo la sua abilità di ex biker gli ha permesso di controllare il mezzo che sembrava sul punto di disarcionarlo. In quel momento ha capito, probabilmente, che la vittoria non poteva più sfuggirgli e ci ha messo ancor più energie nello spingere sui pedali, visto che la sua ossessione - al secolo Julian Ala­phi­lip­pe, che lo ave­va già battuto anche alle Strade Bianche - era lontana. «Ho parlato con lui poco prima della Redoute, mi ha fatto capire che non era in giornata e mi ha detto “buona fortuna, spero che vinca tu”».
Il racconto di Fuglsang procede in perfetto italiano, visto che ha vissuto per anni in provincia di Verona e anche sua moglie Loulou, come detto lussemburghese, ha radici che affondano nel no­stro Paese.
«Questa è la vittoria più importante della mia carriera. E pensare che mia mo­glie me l’aveva detto che sarebbe an­data a finire così, non so come l’avesse previsto, ma di sicuro la ascolterò anche prima delle prossime gare... Sono su una nuvola, felicissimo. Ma lo sapete che ho disputato la mia prima Liegi nel 2009 quando vinse Andy Schleck con una azione simile alla mia? Allora giunsi 84°, stavolta mi sono ispirato a lui».
E ancora: «Quando sono partito sulla Roche aux Faucons mi sono detto “o vado a vincere o muoio”. Non so perché mi ci sia voluto tanto tempo per ottenere un successo così importante, sembra che quest’anno tutti i pezzi del puzzle siano andati al posto giusto. Noi della Astana siamo riusciti a ottenere tanti successi (quello di Fuglsang a Liegi è stato il numero 25 della collezione, ndr) con tanti corridori diversi, questo fa crescere il morale, dà più fiducia e ti fa capire che puoi contare su compagni fortissimi quando arrivare il tuo grande giorno»
Solo un altro danese - Rolf Sorensen, nel 1993 - era riuscito a vincere la Doyenne ed era dal 1955 che un corridore più “vecchio” di Fuglsang non vinceva la classica belga: allora ci riuscì il belga Stan Ockers che di anni ne aveva 35. Paragoni prestigiosi per un ragazzo che non smette di stupire e che attorno a sé ha tanta Italia: il suo ma­nager da sempre è Moreno Ni­co­letti, il suo massaggiatore è Cristian Valente ed è stato proprio per lui il primo abbraccio dopo il traguardo di Liegi. E poi ci sono i direttori sportivi Giuseppe Martinelli, Bruno Cen­ghialta e Stefano Za­nini, il preparatore Mau­rizio Maz­zo­leni e gli altri membri dello staff. Ed è an­che grazie all’Italia che Jakob ha saputo trasformarsi da gregario di lusso - era tra gli uomini che han­no affiancato Vin­cenzo Nibali nella sua ca­valcata vincente al Tour de France 2014 - in un principe capace di conquistare la classica più ambita e più amata di tutte, la Doyenne.

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