STORIA | 19/07/2016 | 07:30 Aveva trentotto anni, la giacca ma non la cravatta, e carta bianca. Ogni giorno poteva scrivere quello che voleva. Di sé o della sua famiglia, della gente che incontrava sulla strada o di quella che abitava nella sua memoria, di chi arrivava primo o di chi arrancava ultimo, di capitani o di gregari, di anarchici o di contadine.
“Indro al Giro”, ovvero Montanelli alle corse di biciclette. Successe nel 1947 (primo Fausto Coppi) e nel 1948 (primo Fiorenzo Magni), per il “Corriere della Sera”, e Andrea Schianchi ne ha raccolto quaranta pezzi, equamente divisi fra le due edizioni (Rizzoli, 250 pagine, 12,90 euro), colti e leggeri, ironici e beffardi, storici e geografici. A quel tempo i grandi giornali inviavano, accanto a un cronista, anche un colorista, che poteva essere narratore (Dino Buzzati e Anna Maria Ortese), romanziere (Vasco Pratolini), umorista (Achille Campanile), poeta (Alfonso Gatto), o un giornalista che, per un mese, rinunciasse alla politica e si purificasse, si divertisse e si ricreasse con il ciclismo. Un’enorme opportunità. Perché il Giro d’Italia significa annusare e assaggiare, tuffarsi fino a precipitare o a volare, insomma esplorare e conoscere Italia e italiani, evadendo finalmente dal chiuso di un ufficio, per quanto redazione.
Così Montanelli s’interroga (“Ha i baffi, Ganna, o non li ha? Sono trentotto anni che mi pongo questo interrogativo e ancora non riesco a risolverlo”), Montanelli si risponde (“Ho osservato Zanazzi durante la corsa d’oggi. Il ragazzo tira al risparmio. Si dava arie da avventuriero ma invece, da buon milanese, è un accorto ragioniere”), Montanelli scopre (“Luigi Corsi, il regista del Giro d’Italia. Era un milite della strada… Se invece di Mussolini la motocicletta gliela avesse data Maometto, Corsi sarebbe circonciso e sarebbe andato in pellegrinaggio alla Mecca”).
Così Montanelli fa lo snob (“La corsa è cominciata alle undici e dieci; e la cosa che soprattutto ha colpito me, che non l’avevo mai vista, è che si tratta effettivamente di una corsa”), Montanelli fa lo spiritoso (“Il numero 65 è Gino Fondi; e questo nome, evidentemente, non desta preoccupazioni”), Montanelli fa il tifo (Ronconi “avrà certamente la colite, come dicono, ma stamane deve aver preso il bismuto. A quest’uomo, che non conosco, mi lega una specie di solidarietà intestinale. Il Giro d’Italia con la colite è già scomodo farlo in auto ma in bicicletta deve essere addirittura una tortura cinese”). Montanelli va a Coppi (“La forza di Coppi è la sua fragilità. Coppi è un’antilope e ne condivide tutte le bizze”), va a Bartali (“Non è un uomo: è una poesia di Kipling incarnata in un fascio di muscoli e di nervi”), va a Coppi & Bartali (“Così ha perso Bartali: in un modo che vale quello con cui Coppi ha vinto. Questi sale a testa alta, quegli a testa alta declina. Quale, delle due imprese, la più difficile e meritoria?”), va a mille (“Coppi beve sciampagna e mangia banane. Bartali mangia fagioli e beve vino rosso”), va a tutta (“Bartali corre in bicicletta per comprarsi un’automobile; Coppi è tornato alla bicicletta dopo essersi stufato a correre in automobile”), va alla grande (“Non cinque anni li separano, come dicono i certificati di nascita che, come al solito, sono stupidi e bugiardi, ma un secolo di Progresso e di Tecnica”).
E Montanelli se la gode. Lo si legge, lo si sente. Sulla bicicletta: “E’ l’ultimo strumento salariano che oramai resti a una gioventù che la tecnica e il progresso hanno orbato di ogni eroica evasione”. Sul giornalismo: “Dio lo salvi, povero Abruzzo, dal linguaggio dei giornalisti sportivi. Per fortuna è una terra forte, già collaudata contro questi attacchi: ha resistito persino a D’Annunzio”. Su di sé: “I tifosi piacentini ci vanno inseguendo con quotidiani telegrammi pieni di buone parole per le nostre presunte qualità di scrittore e di insulti per la nostra autentica incompetenza di sportivi”.
Il meglio, Montanelli, forse lo dà quando libera il suo spirito ribelle: “Il sindaco Greppi ha il dono, concesso da Dio solo a pochi privilegiati, di saper spiegare anche quello che non capisce”. O quando coglie i tesori della strada: il giorno in cui il Giro incrociò un funerale, quelli del funerale abbandonarono “il funebre cocchio” e urlarono “Viva i corridori!”, e quelli del Giro risposero “Viva il morto!”.
A quasi settant’anni di distanza, quei due Giri di Montanelli sono diventati addirittura esemplari perché quel loro girare è stato abbandonato. E pensare che adesso i quotidiani, stravolti e dissanguati dalla concorrenza eterea, dovrebbero investire pagine proprio a quella antica maniera. Carta bianca. E via.
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