BETTINI. «Solo Nibali ha la fantasia che serve per le classiche»
PROFESSIONISTI | 19/04/2014 | 16:01 La fantasia ce l'hai dentro oppure non ce l'hai, non è mica obbligatorio. Paolo Bettini ne ha una buona dotazione. L'ha messa nelle corse, e ne ha vinte proprio tante, e tutte belle. E adesso che ha quarant'anni («Alfredo Martini, che ne ha novantatrè, mi ha detto di stare tranquillo, che non sono neanche a metà») ha smesso di fare il ct, lavora con Fernando Alonso alla costruzione di una nuova squadra, e appena può va a volare. «Volare è molto più bello che andare in bicicletta». Però il ciclismo è sempre nei pensieri, e negli occhi.
Meno male che è finito il pavè. O no? «Sulla carta qualche possibilità in più dovremmo avercela. In teoria. Ma l'unico dei nostri corridori che ha dimostrato di saper vincere una classica è Vincenzo Nibali. Parlare di fenomeno è sempre sbagliato, fenomeno era Merckx. Vincenzo è un grande campione che ha le palle, sa prendersi le responsabilità e ogni volta mantiene le promesse. La gente vuole questo, vuole uno che sappia animare la corsa, che sappia azzardare. Mi viene in mente quello che dicevano a me quando ero giovane: ma quante energie butta via quel Bettini. Io facevo sempre un gran casino, mi mettevo alla prova, magari su dieci corse ne vincevo una. Ma a forza di fare così ho vinto dodici classiche».
Nibali la fantasia ce l'ha. «Lo abbiamo visto a Sanremo: se fosse stato nel '98 avrebbe trovato gente come Pantani, che veniva alla Sanremo apposta per farla perdere a Bartoli. Vincenzo non ha trovato nessuno, ma una corsa anonima non l'ha voluta fare, anche se non era al meglio. A Firenze quando l'ho visto per terra ho detto addio al mio Mondiale. Invece è risalito in bici e si è inventato quel finale incredibile. Il suo quarto posto ha ampiamente ripagato il nostro lavoro, Vincenzo quel Mondiale l'ha vinto».
Non sarà al Giro. Questo alla gente dispiace. «E' normale. Ma è anche normale che Nibali voglia andare a giocarsi il Tour adesso che ha la maturità giusta per farlo. Diciamo che possiamo anche sopportare di vederlo un po' indietro alla Liegi pur di vederlo là davanti al Tour. E comunque è uno che può fare tutto: quanto è bravo a calcolare ogni minimo dettaglio in un grande giro, tanto è capace di mettere fantasia nelle corse di un giorno. Purtroppo però bisogna scegliere».
Tutta qui l'Italia per le Ardenne? «Stiamo riscoprendo un po' Cunego, qualcosa ha fatto. Ma vincere una classica...».
Può farcela? «Se vince, sarò il primo a fargli i complimenti. Però non ci credo. Gli anni passano, se Damiano vuole vincere si devono distrarre gli altri. Altrimenti li deve anticipare, non può pensare di arrivare con i migliori e batterli. Spero di sbagliarmi».
E Ulissi? «Diego lo conosco bene, abita a quindici chilometri da casa mia. Lo sa che sarei felice se vincesse la Liegi, gliel'ho detto. Il carattere c'è, le qualità le ha, ma le corse sopra i duecento chilometri sono un'altra roba, e bisogna fare un salto di qualità».
Discorso che vale anche per Sagan? «Sagan è bravissimo, ma non bisogna sopravvalutarlo. Anche lui deve ancora vincere una di quelle corse che ti cambiano la vita. Prima di chiamarlo fenomeno aspettiamo. Fenomeno è Cancellara, che nelle ultime undici classiche monumento è andato undici volte sul podio, per non dire che la metà le ha vinte».
I nostri sono sempre giovani. «La verità è che negli ultimi venticinque, trenta chilometri, molti spariscono».
Marcato sarà la punta della sua squadra all'Amstel. «Marco si è un pochino perso. Ma gli ho visto fare bei numeri, è un grande uomo squadra».
Moreno Moser non ci sarà. «Si è presentato nel mondo del professionismo per mettere in crisi il suo ct, Bettini. Dal 2012 però fa fatica. Aspettiamo che si rimetta e vediamo come sa organizzarsi. E' un ragazzo sveglio, intelligente: speriamo di non trovarci fra qualche anno a rimpiangere quando anche lui era giovane».
A proposito di rimpianti. Pozzato? «Pippo è un amico, ma non si può pensare di arrivare a giocarsi una classica senza essersi messi alla prova prima, senza aver fatto un piazzamento. Sento parlare di flop di Pozzato: io non sono deluso, mi sarei meravigliato se avesse fatto bene».
Paolini invece il suo lo fa sempre. «E' un bel vecchietto, uno che ha mestiere. Ha fatto vincere un'altra Sanremo, a Kristoff: il capolavoro l'ha fatto sul Poggio, quando l'ho visto partire sapevo che stava lavorando per un altro, non per lui. Lui vince sempre».
C'è in giro un altro Bettini, magari straniero? «No, non c'è. Di Bettini ce n'era uno. Uno che ha imparato un mestiere a forza di provarci, di sbagliare anche. Ho imparato guardando Bartoli. Poi ovviamente avevo il mio carattere. Ma ho vinto anche classiche quando non ero al cento per cento. La seconda Liegi, per esempio: prima della Redoute ero già in fuga, perché non mi sentivo la gamba e avevo capito che se volevo provarci dovevo anticipare tutti».
Bartoli invece vinceva soltanto se era in giornata di grazia. «Lui era fatto così. Una volta si voleva ritirare perché gli facevano male le gambe. Scinto gli disse: a me fanno male tutti i giorni. Ecco, se ascolti le gambe in una corsa come la Liegi a un certo punto metti i piedi a terra. Invece io pensavo: se resisto ancora quindici chilometri posso vincere. Ecco, sai cosa manca a questa generazione di corridori? Dovrebbero amare di più le classiche. O le senti, o ci arrivi con qualcosa in meno. Noi andavamo su e quella era la nostra religione. Io, che ho sempre odiato uscire ad allenarmi quando pioveva, quando ero in Belgio facevo le ricognizioni sotto la neve e mi esaltavo».
Cosa ci vuole per vincere la Liegi? «Tanto coraggio. Una buona squadra. E nel finale gambe e fantasia».
Meglio la Liegi o il Mondiale? «Per fortuna che nel 2000 ho vinto la Liegi: è stato allora che sono cambiato, che ho capito che avrei potuto vincere tutto. Ecco perché poi ho vinto i due Mondiali».
di Alessandra Giardini da Il Corriere dello Sport - Stadio
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