
Jean Stablinski, il suo capitano, lo chiamava Coppi. Ma quale Coppi, gli rispondeva lui. Coppi non era un gregario, non portava borracce, non spingeva, non viveva da emigrato, non soffriva di nostalgia, non si dannava nella speranza, un giorno, di comprare una casa per la famiglia o aprire una bottega da ciclista.
Lui era Mansueto Semenzato. E quando spiegava che non era Coppi, era anche poco mansueto. Veneziano di Spinea, del 1926, Mansueto aveva cominciato a correre imitando Bevilacqua, continuò a correre ispirandosi a Bartali (nella foto di Semenzato c’è l’autografo di Bartali!) e distinguendosi da Coppi, insistette a correre pur dividendosi tra il lavoro in miniera (e Stablinski lo capiva, anche lui era stato minatore) e le gare in bicicletta, almeno una volta si sentì Bevilacqua o Bartali o anche Coppi vincendo la Parigi-Lille. Aveva il dono del talento: trionfò per distacco la prima volta che indossò un dorsale, allievo in una corsa aperta anche ai dilettanti. Aveva anche il dono di sapersi accontentare: gioì quando la Arbos gli offrì un contratto, niente stipendio ma spese pagate e maglia regalata.
Ieri Mansueto Semenzato avrebbe compiuto 99 anni. Moreno, uno dei suoi sette figli, il più vicino a diventare corridore professionista, ogni 15 marzo me lo ricorda con l’affetto e la riconoscenza che Mansueto meritava per la passione inversamente proporzionale alla gloria. La passione con cui pedalava da gregario anche per Cottur, la stessa passione con cui proseguiva a gareggiare anche da indipendente e amatore, con cui durante la Seconda guerra mondiale combatteva da partigiano e con cui da partigiano arrestato dai tedeschi riuscì a gettarsi dal camion e a salvare la pelle, o con cui sventò da guardia giurata un furto dopo una sparatoria.
Se sei giá nostro utente esegui il login altrimenti registrati.