Era così uomo di squadra che le uniche due vittorie da professionista le ha conquistate con la squadra: la cronostaffetta a Brugnera nel 1982 (nella Famcucine-Campagnolo con Moser, Torelli, Masciarelli e Amadori) e la cronosquadre al Giro di Svizzera nel 1985 (nella Carrera-Inoxpran con Breu, Chiappucci, Perini, Ghirotto, Bordonali e Rossignoli). Le altre vittorie, tante, tantissime, erano quelle dei suoi capitani: da Gimondi a Basso, per dirne due, da Bitossi a Zilioli, per dirne altri due.
Glauco Santoni il gioco di squadra lo aveva imparato in famiglia: “Secondo di sette fratelli e sei sorelle, totale tredici, più il papà, muratore, e la mamma, tuttofare”. A Villa Verucchio, una dozzina di chilometri da Rimini, con altre squadre: “La scuola, fino alla terza media, e la banda del paese, cinque-sei anni, io alla tromba”. Finché tra scuola e banda, scelse la bici: “Per muoversi non c’era altro. A casa non avevamo la macchina”. Glauco aveva quattordici anni: “In bici da solo o in giro con gli amici, poi in una società. Da un magazzinetto estrassero una bici usatissima. Non mi chieda la marca, non la ricordo, non ci guardavo, o forse non c’era più, scolorita dal tempo e grattata dall’uso”. La prima corsa? “Nella zona organizzavano dei circuitini. Cesenatico, Gatteo, Bellaria… Finì con uno sprint. E alla terza corsa il terzo posto. Era il 1965, quel giorno in tv si celebrava la vittoria di Gimondi al Tour de France, e mai avrei immaginato di poter un giorno correre con lui e per lui”.
Il ciclismo era Disneyland: “A casa non mi ostacolavano, e quando potevo, andavo ancora ad aiutare mio padre nei cantieri. Tanto più che qualche risultato arrivava. Ogni domenica era una bella festa. Non avevo pensieri per il domani, quello che arrivava era un regalo. E la passione si moltiplicava”. Finché non passò professionista: “Era un mondo diverso, più difficile, un altro mondo. Poche squadre, ciascuna squadra formata da dieci-dodici corridori, solo i più forti, e tutti i corridori correvano tutte le corse, e tutti, o quasi, correvano per vincere, e tutte le corse, anche quelle dette minori, non erano meno di 250 chilometri”.
Santoni era un bel passista-scalatore: “. Il mio compito era stare accanto ai miei capitani. Dunque, una corsa di testa. Tenevo duro, non mollavo, se c’era da tirare tiravo, se c’era da inseguire inseguivo, stavo con loro finché ce la facevo, poi continuavo e arrivavo nelle vicinanze, rimediando anche qualche piazzamento”. Terzo in un Giro dell’Emilia (1976), quinto in una Coppa Placci (1982), quinto in un Giro dell’Appennino (1980), sesto in una Tre Valli Varesine (1980). Anche a tappe: sesto in un Giro di Puglia (1980), sesto in un Giro del Trentino (1981). “Correre per aiutare non è come correre per vincere. E non ti insegna a vincere, anzi, quando forse poteva intravvedersi una possibilità, io ormai neanche mi accorgevo più del momento giusto”.
C’erano sempre i capitani (“Gimondi che mi cercava anche quando avevamo smesso di correre, Moser che era, diciamo, più esuberante…”), i compagni di allenamento (“Vandi e Savini, quasi vicini di casa”), i giri d’allenamento (“Montefeltro, la Val Marecchia, il Carpegna prima che diventasse la salita di Pantani, ma era duro, lo facevamo ogni tanto”). Otto Giri d’Italia, quattro Tour e una Vuelta (“Più duro il Tour, per il caldo, per il diverso modo di correre, tutti volavano”), Sanremo e Lombardia (“La Sanremo più bella per i fuoriclasse, una specie di giallo, il Lombardia più tosto, a fine stagione”). C’erano sempre le salite (“Mai fatti Gavia e Mortirolo, ma lo Stelvio sì. E il Gran Sasso non era certo meno faticoso”), a volte la neve (“Al Trentino, alla Tirreno-Adriatico…”), spesso le cotte (“Prima o poi capitavano a tanti, se non a tutti. Una volta mi piombò una crisi di fame, eravamo nel centro Italia, mi attaccai a un furgoncino pubblicitario, bomboloni, ne divorai fino a riprendere energia”). E le borracce: “Zilioli mi chiese di fermarmi a prendergli da bere. Dove?, gli domandai. In un bar, mi disse. Io al bar non ci vado, gli risposi. E Zilioli non me lo chiese mai più”.
Santoni lasciò le due ruote per le dieci di un autoarticolato. Uomo di squadra, sempre. Così uomo di squadra, Santoni, che anche adesso, a settantatrè anni (oggi, 19 gennaio, il compleanno, auguri), va in bici in gruppo: “La partenza da un bar, in parecchi amici, poi i giovani menano a testa bassa, senza rispetto, e siccome non voglio più tirarmi il collo, noi altri li lasciamo sfogare e andiamo avanti con il nostro passo”.
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