“Il Patron del nostro Giro d’Italia deve probabilmente discendere da una fierissima stirpe di esploratori. La fortuna e l’audacia, nel suo cuore, hanno sempre fatto un felice sposalizio: era da scommettere che il Giro d’Italia non avrebbe mai sofferto decadenza”. Così Bruno Raschi, il Divino, scriveva di Vincenzo Torriani, erede di “una fierissima stirpe di esploratori”. E ieri, a Roma, alla presentazione del Giro d’Italia 2025, Torriani pedalava nella memoria della Corsa Rosa.
Due giorni fa ricordavo il libro di Sergio Giuntini “Vincenzo Torriani e l’Italia del Giro” (Prospero), oggi spiego quello scritto da Gianni Torriani, figlio di Vincenzo. Intitolato “L’ultimo Patron”, pubblicato da Ancora di Milano, con la prefazione di Pier Bergonzi, l’introduzione di Sergio Meda e la postfazione di Marco Torriani (176 pagine, 19 euro, del 2017), non è una biografia, ma un libro-intervista (non solo a lui, ma anche ai suoi più stretti collaboratori) e un album di famiglia (e stavolta la famiglia non è solo quella, grande, del ciclismo), che ci restituiscono l’immagine del mezzobusto più famoso d’Italia, escluso il papa (con tante citazioni giornalistiche e letterarie).
Torriani rivendica l’invenzione dell’ammiraglia con tettuccio apribile: “Non è stata un’operazione facile, anche perché non prevista in gran parte dei modelli, per cui la preparavano in carrozzeria tagliando la lamiera sul tetto a forma di oblò con manovella di chiusura”. Svela un segreto: “Anche Raschi ogni tanto si ergeva per salutare il pubblico per strada, ma si scoraggiava subito e rientrava quando capiva che veniva scambiato per me (a distanza c’era una certa somiglianza tra noi due)”. Non è tutto: “Anch’io avevo il mio punto debole: dopo aver mangiato mi è sempre piaciuto fare una pennichella breve, questo anche a casa: un quarto d’ora, venti minuti mi bastavano”, finché “Mario Fossati de ‘Il Giorno’ battezzò questa mia debacle post prandiale il ‘sonno epatico’ di Torriani”. Torriani elenca i “ferri” del mestiere: “Non potevano mancare assolutamente il mio fischietto e la bandierina rossa, che utilizzavo solo in caso di emergenza e che, qualche volta – lo riconosco – è andata a stamparsi su qualche spettatore fuori controllo”. Non era un ferro del mestiere, ma infinitamente di più, l’affidamento alla “Provvidenza, nel senso cristiano del termine”.
Torriani racconta dei suoi compagni di viaggio, non solo Raschi, ma anche Sergio Zavoli (“Con il ‘Processo alla Tappa’ abbiamo cambiato anche il modo di far televisione, oggi si direbbe che con il ‘Processo’ siamo stati i precursori dell’odierno talk-show”), i direttori della “Gazzetta dello Sport” organizzatrice del Giro d’Italia (“Fu indubbiamente con Candido Cannavò che mi trovai più in sintonia. Ci conoscevamo già da quando lui era il corrispondente della ‘Gazzetta’ dalla Sicilia. Quando facevamo tappa là lui era il mio punto di riferimento”), il suo rapporto con la politica (“Accettai e mi buttai, ben consapevole del rischio che avrei corso se fossi stato eletto”, “Ma non è andata così, per questo devo ringraziare l’amico Gino Bartali che spesso mi accompagnava nei comizi. Seppi che per pochi voti non fui eletto e che ci furono molte schede annullate col nome di Bartali”), anche la sua difficile posizione in alcuni difficilissimi momenti, dal doping di Eddy Merckx nel Giro del 1968 (“Le procedure del controllo erano state rigorosamente rispettate”, “Controanalisi risultate anche quelle positive”, il proseguimento grazie anche alle “garanzie del sottosegretario al Ministero degli Esteri”) alla morte di un ragazzino schiacciato dalle tribune crollate a Terracina sempre nel Giro del 1968 (“Quella tragedia funestò tutta la carovana e a malincuore ripartimmo l’indomani”). Perché Torriani, su questo, era irremovibile: “Il Giro doveva continuare, la vita doveva continuare”.
Quanto al famoso “paga Torriani” esclamato dai gregari carichi di bibite dopo assalti ai bar, il Patron sostiene che “ero il ‘parafulmine’ di ciò che accadeva in corsa, nel bene e nel male. Per carattere e per il mio modo di pensare non mi sono mai tirato indietro, ma c’è un limite a tutto”. Come dire che quel dichiarato pagamento non è mai andato a buon fine.
Descritto come tirannico e geniale, fortunato e audace per dirla con le parole di Raschi, “L’ultimo Patron” ci regala un’immagine meno severa di quella che appariva in tv, Per esempio, nella gratitudine e, chi l’avrebbe mai detto?, nell’ironia. Quando Gianni Torriani cita il ritratto che gli pennellò Claudio Gregori, “Torriani era Napoleone. L’Italia era per lui una terra da conquistare”), Vincenzo Torriani ribatte: “Forse non sarò stato come Napoleone, ma meglio così, per me di Sant’Elena c’è stata solo mia moglie!”. Con tanto di punto esclamativo.
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